VITA30, le storie

Mina Welby, il cardellino

La storia di VITA è una storia fatta di persone. In vista dell'appuntamento del 25 e 26 ottobre, quando alla Fabbrica del Vapore festeggeremo insieme il trentennale, abbiamo chiesto ai giornalisti di VITA qual è stato l'incontro che ha "lasciato il segno". Sara De Carli ha scelto quello con Mina Welby, avvenuto pochi mesi dopo la morte di Piergiorgio

di Sara De Carli

Mina Welby

Io questa intervista non la volevo fare e forse proprio per questo è quella che più mi ha lasciato il segno. Era il 2007, dalla morte di Piergiorgio Welby erano passati pochi mesi e io sentivo di essere troppo invadente o forse ero solo troppo timida. Diciamo anche che sull’eutanasia avevo, personalmente, un’altra posizione. Mi ha forzato Giuseppe Frangi, allora direttore di VITA. È stato un incontro incredibile. Perché Mina Welby, che io avevo in testa solo come “personaggio”, si è lasciata incontrare come “persona”. Lì ho capito una volta per tutte che le ragioni degli altri hanno sempre, appunto, delle ragioni: non me lo sono più scordata, per davvero. E che in questo mestiere cambia tutto in base a tre cose: le domande che fai, la disponibilità degli altri a farsi conoscere e la disponibilità tua a lasciarti sorprendere. Come dice sempre Riccardo Bonacina, “la vita prima di tutto”. Senza aggettivi, senza pregiudizi, senza ideologie. La vita, che siamo tutti noi.

Mina Welby sale le scale con piglio deciso: «Fa bene alle gambe e al cuore». È nella discesa che inciampa. E ha un moto elegante, quasi a giustificarsi: «Sai, non mi sono ancora riabituata. Era da giugno che non scendevo neanche a portar fuori la spazzatura». I giorni di Mina Welby sono così, riabituarsi. E qualche volta si inciampa.

Come sta?

Come se vivessi in un posto differente da quello in cui sto. Ci sono dei momenti in cui tutto a un tratto mi accorgo di dove sono, e allora capisco che stavo da un’altra parte. L’altro giorno sono passata in viale Togliatti, vicino a dei posti dove ero stata con Piergiorgio, in carrozzina, dieci o dodici anni fa. Avevamo fatto una passeggiata fino al centro commerciale, c’era anche una piccola esposizione di quadri. Siamo saliti sul terrazzo, c’erano dei gatti, e ci siamo intrattenuti a chiacchierare e fotografare. Mi sono ricordata di tutti questi particolari, ed erano anni che non ci pensavo più, anche se da lì sono passata altre volte.

Com’è oggi la sua giornata?

Da quando Piergiorgio non c’è più, mi sembra che il tempo non finisca mai. Non ho ancora spostato niente, non ho svuotato gli armadi. Faccio piano piano, perché da tante cose ancora non mi posso dividere. Sembrerà feticista, ma credo sia così per tutti quelli che hanno dovuto dividersi da una persona che amano. La sua carrozzina è rimasta lì, gliel’ha comprata suo papà 26 anni fa, lui in casa stava sempre su quella. La tengo lì, come un mobile. Il cuscino che usava Piergiorgio io la notte me lo metto vicino, per sentire il suo odore. Lui a me diceva: «Odori di cardellino». Vado a letto tardi, perché più di quattro ore non riesco a dormire: un po’ l’agitazione, la giornata così tanto differente da prima. Continuo a lavorare alle cose a cui ha lavorato mio marito, leggo i suoi documenti, quello che lui ha scritto sul Calibano, mi studio le cose che scrivono i giornali. Io vivo insieme alla mamma di Piergiorgio, che ha 86 anni e mezzo. Vado con lei a fare la spesa, l’aiuto; lei è molto autonoma, allora faccio i mestieri di nascosto quando lei non mi vede.

Lei e sua suocera avete reagito in modo simile?

Mamma forse è riuscita ad accettare la morte di Piergiorgio meglio di me. Io ho accettato la sua morte in quanto lui lo voleva: ho accettato ciò che voleva lui. Però adesso ho un sacco di difficoltà a viverlo. Mamma reagisce più razionalmente. Lei per esempio riesce a guardare la televisione e a sentire la radio, io no. Prima la radio era accesa tutto il giorno, da quando Piero è morto io non l’ho più accesa.

Siete stati tutti d’accordo in famiglia?

Sì. Alla mamma non l’abbiamo detto subito, però quando lei sentiva Piergiorgio lamentarsi diceva sempre: «Ma perché non lo ascoltano, che cosa aspettano? ». E io dovevo calmarla, le dicevo che non si può, che staccando il respiratore lo avrei fatto morire soffocato. Anche Piergiorgio mi diceva: «Spegni il respiratore, non ce la faccio più». Ma io non me la sono mai sentita di farlo morire soffocato.

Tra tutte le manifestazioni pubbliche che ha ricevuto, quale le ha fatto più piacere?

L’altro giorno ho visto il ministro Livia Turco in un dibattito, mi ha salutato, mi ha fatto capire che ora è molto combattuta sul da farsi, sul come andare avanti in politica. Io spero che grazie a Piergiorgio si sia aperta una piccola porticina anche per tanti altri.

Lei intende continuare questa battaglia?

Sì. Io non so come si possa fare, non sono una politica, però è necessario che i politici regolamentino la materia del fine vita, perché non si ripeta più una vicenda come quella di mio marito.

Per ottenere che cosa?

Se dico eutanasia, tutti si mettono paura.

Però Piergiorgio ha usato questo termine quando ha scritto a Napoletano. E poi invece nella conferenza stampa altri l’hanno cambiato in rinuncia terapeutica…

Piergiorgio nella parola eutanasia metteva sia la rinuncia all’accanimento terapeutico sia l’eutanasia attiva. Poi ha capito che era importante distinguere le due cose, e aveva chiaro che quello che voleva era rinunciare al respiratore. Ora si parla di una legge sul testamento biologico e io spero che lì dentro si chiarisca che idratazione, respirazione e alimentazione artificiale sono cure mediche, sono invasive, e quindi ci si può rinunciare perché fanno anch’esse accanimento. Però qui devono decidere i medici. E soprattutto devono pensare il testamento biologico in modo che il paziente sia veramente consapevole, informato, con un medico che ti spiega cosa ti succede se rinunci a questo o a quest’altro. Mi sembra ci voglia una saggezza molto concreta, caso per caso. La seconda cosa è la rinuncia alle terapie già in atto. Terzo, ci sono malati che sono in situazioni terribili e chiedono di morire: che cosa fare? Lì anche io sono davanti a un dilemma. Io direi che prima bisogna provare tutte le cure possibili.

Sembra la richiesta del “Manifesto per il coraggio di vivere e far vivere”?


Mio marito ha sempre cercato di migliorare le suo condizioni. Quando una cosa non la poteva più fare, ne abbiamo cercata un’altra. Lui dipingeva, prima quadri grandi e poi quadri piccoli, poi si è messo a fotografare. Nel 1997, quando è uscito dalla rianimazione, abbiamo dovuto ricominciare daccapo. È tornato che non riusciva neanche ad azionare un telecomando. Ho chiamato un fisiatra e siamo riusciti a tirarlo giù dal letto, a rimetterlo seduto. Quasi lo abbiamo violentato, perché lui si voleva lasciare andare: «È finito tutto, diceva, non sono più capace di fare niente». Piano piano ha capito che c’era ancora qualcosa. Ha iniziato a scrivere poesie. Poi il computer. Ed è cominciata un’altra vita. Io allora per queste persone cercherei di capire se c’è ancora una possibilità per farli vivere, per coinvolgerli in un’attività, per garantirgli l’assistenza, la qualità della vita. Ma la cosa più importante è l’affetto, che fa tutto. Perché le tecnologie possono essere sofisticate quanto vuoi, ma se non c’è l’amore, il calore, la spinta complice di qualcuno che ti aiuta, non si può fare nulla. Questo vale anche per chi fa assistenza domiciliare: a volte non curano la relazione personale, ma è importante, perché per molti malati quelle sono le uniche persone che vedono. A noi, dopo mia cognata, la persona che ci è stata più vicina è stata una nostra assistente, Josephine, una signora che viene da Santo Domingo. Un pochino ha riconciliato mio marito con la vita. Per questo dico che mio marito non voleva morire, era solo stanco, stremato: non c’erano più muscoli, non c’era più nessuna terapia da fare. Mi sembra giusto esigere la garanzia della presa in carico, però ci sono anche persone che dopo una trafila di anni di cure e di sofferenza arrivano allo stremo, alla fine di tutto. Penso che regolamentare l’eutanasia darebbe loro una sicurezza: in caso estremo, quando non ci sarà più niente da fare, sono sicuri che non soffriranno. Non credo che sarebbero in tanti a chiederla, più che altro è una cosa che tranquillizza.

Cosa invece l’ha ferita?

Direi due cose. Non vorrei essere io ora a far male a una persona che è molto sofferente, però mi ha molto ferito la lettera che Salvatore Crisafulli mi ha scritto dopo la morte di Piergiorgio: ci sono state delle offese, ha scritto che Piergiorgio era schiavo dei politici. E ancora più male mi ha fatto il cardinal Ruini, che ha ribadito che la Chiesa doveva negare i funerali. Dalla Chiesa mi aspettavo un atto di misericordia, non un atto politico. Comunque ho avuto tante testimonianze di sacerdoti che avrebbero fatto il funerale.

Lei si è sentita esclusa dalla Chiesa?

No. Mamma si è molto risentita. Se fossi stata sola io non avrei chiesto i funerali in chiesa, sapevo che Piergiorgio non li voleva. Il parroco veniva tutti i mesi a casa, lo salutava, ma mio marito non ha mai fatto la comunione. Io l’ultimo pomeriggio gli ho detto: «So che tu i funerali in chiesa non li vuoi, però che dico a mamma? Mi rinfaccerebbe tutti i giorni che io non ti ho fatto fare il funerale in chiesa». «Dopo morto non me ne importa niente», mi ha detto lui, «fai come vuoi». Poi come è andata lo sa.

Lei ci va ancora in chiesa?

Sì. Mamma ha detto: «Io in chiesa non ci vado più». Io le ho detto: «Mamma, non andiamo mica in chiesa per i preti. Noi andiamo per convinzione, per fede». Il 20 gennaio ho fatto celebrare una messa per Piergiorgio, nella nostra parrocchia, è venuta anche mamma: il sacerdote le ha fatto una carezza quando ha fatto la comunione, si è riconciliata. Spero che col tempo capiranno. Il cardinal Martini mi ha molto consolato, ma lui è sempre stata una voce fuori dal coro.

Cosa la affascina tanto nel cristianesimo da farle superare questa batosta?

Il Vangelo. Prendo la Bibbia, la apro e leggo, è un’abitudine. Qualche giorno dopo la morte di Piergiorgio mi è capitato Giobbe: un ribelle, che protestava contro Dio. Allora ho ragione anche io di dire, gridare, arrabbiarmi e chiedergli «perché». Mi sono consolata.

L’ha fatto anche quel giorno?

Sì.

E cosa è uscito?

Non me lo ricordo. Piangevo troppo. Quel giorno piangevo ma non volevo fami vedere, andavo in bagno, mi lavavo la faccia, tornavo e lui mi guardava male: «Mi è andato qualcosa nell’occhio», ho detto. «Ultimamente ti va troppo spesso qualcosa nell’occhio ». È stato più lui ad aiutare me. Ha avuto una forza d’animo enorme.

C’è un brano che avrebbe voluto fosse letto al funerale?

Non ci ho pensato. Però sì: «Venite a me voi che siete affaticati e oppressi».

Sulla tomba ha scritto una frase?

Non abbiamo ancora tomba, dobbiamo aspettare l’esame tossicologico del prelievo dei liquidi. Penso che verso la fine di febbraio potremo fare la cremazione. Lui voleva che le sue ceneri fossero disperse al canale di Maccarese, dove andava a pescare.

Come vede la sua vita pubblica?

Navigo a vista. Mi hanno chiesto una collaborazione con l’associazione Luca Coscioni e con i radicali, ma ho chiesto di lasciarmi fare ancora un po’ di rodaggio. Voglio offrire la mia esperienza degli ultimi giorni per far capire che Piergiorgio non voleva ammazzarsi, voleva soltanto non soffrire più perché era stanco. Questo mi costa, perché mi manda tutto di nuovo davanti agli occhi. Ma lo devo a Piero.

Dove immagina suo marito?

In paradiso, nelle braccia di Dio. Per la gente semplice, come me, il Paradiso è dove si sta bene. E io sono sicura che lui ora sta bene. Sono serena. Ultimamente l’ho visto spesso guardare il crocifisso e dire «Gesù, Gesù». Gli ho detto: «Lo chiamo anch’io, ma non risponde. Però quando lo incontri, diglielo». Non credo che si possa parlare di conversione: mio marito è stato un dubbioso tutta la vita. Cercava la verità. A me stanno sul gozzo quelli che hanno la verità in tasca: non ce l’abbiamo in tasca, nessuno sa. Mio marito pensava che la morte è parte di vita, una trasformazione. Io gli ho detto: «Tu forse lo chiami nulla, perché ami Severino e Leopardi, ma per me è l’infinito, è Dio».

Foto Fabio Cimaglia / LaPresse, 2018

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