Volontariato

Milano: vi presento i Rom della Casa della Carit

Pubblichiamo la lettera che ci scrive un lettore, Daniele Biella, che pochi giorni fa ha trascorso una mattina nel centro di don Colmegna

di Redazione

Una mattina alla Casa della Carità di Milano è un’occasione per conoscere da vicino il mondo dei 79 zingari accolti temporaneamente nella struttura dopo essere stati “sfrattati” dal campo nomadi. Che non esiste più. Sergio ha 12 anni, capelli scuri e sguardo intenso. “Se tu potessi fare un viaggio, dove vorresti andare?”, gli chiedi. “Da nessuna parte”, ti risponde in un italiano quasi perfetto. Cresciuto nelle campagne di Craiova, nel sud della Romania, Sergio è in Italia da pochi anni, da quando i suoi genitori hanno deciso di migrare verso Occidente in cerca di migliore fortuna. Mentre stai creando sculture con palloncini colorati a un nugolo di bambini di etnia Rom come lui, Sergio è l’unico che, defilato, ti fissa silenzioso. Non vuole il suo palloncino, sembra non gli interessi granché, i suoi occhi si concentrano su di te ma chissà dove sta vagando con il pensiero. “Sergio, scegli una figura”, gli viene chiesto. “Gonfiami il palloncino, poi faccio io”, controbatte, distante. Poco dopo, qualcuno annuncia che il pranzo è pronto. Movimento generale, e in un attimo ti trovi solo, o quasi. Sergio è lì, continua a fissarti con un fare interrogativo che anticipa la tua domanda e risponde: “Non ho fame”. Cambi argomento. “Davvero non vorresti andare da nessuna parte?”, gli chiedi nuovamente. “Beh, sì, un posto c’è. Vorrei andare in una casa, una casa vera”. Sergio è una delle 79 persone che da inizio luglio sono state sgomberate dal campo nomadi di via Capo Rizzuto a Milano e che hanno trovato alloggio temporaneo presso la Casa della Carità, struttura gestita dalla Caritas Ambrosiana, attiva dal novembre 2004 a sostegno di numerosi indigenti italiani e stranieri. Qui i Rom ricevono ogni giorno tutte le attenzioni degli operatori della Casa e dei numerosi volontari che hanno risposto all’emergenza. Pasti caldi, attenzione medica e un letto al coperto (nell’auditorium) sono garantiti. La situazione è in continuo sviluppo, le parti sociali coinvolte si stanno incontrando e con lo sforzo di tutti di qui a poco si troverà una soluzione, si spera la migliore possibile. Sorin, quarantenne padre di famiglia, segue l’attività dei palloncini e ti aiuta nel controllare la frenesia dei bambini. Mentre la maggior parte degli uomini è al lavoro, lui oggi è rimasto alla Casa. Non rifiuta il dialogo, anzi ti racconta le varie situazioni familiari, soffermandosi sui piccoli accolti: “In tutto ci sono 30 bambini, tre sono disabili, uno ha un mese e mezzo, e due gemelli sono in arrivo”. L’irruenza del suo corpo è smussata dalla pacatezza del modo di parlare, che si scalda solo quando c’è qualche rimprovero da fare. Ti parla di sé, della sua terra e lo fa con umiltà: “La Romania è bella, ma non mi manca: vivevamo anche lì in baracche squallide e senza possibilità di trovare un lavoro che ci togliesse dalla miseria. Per questo siamo venuti in Italia, cinque anni fa. Siamo persone oneste che vogliono lavorare e offrire maggiori opportunità ai propri figli”, conclude Sorin. La sua è una storia come tante altre, in un’Italia che fatica a rapportarsi all’ondata di immigrazione degli ultimi decenni, sia dal punto di vista culturale sia da quello delle infrastrutture. Sergio, Sorin e gli altri hanno pagato a caro prezzo l’aver vissuto a fianco di connazionali dediti alla delinquenza e alla violenza. Se prima avevano una baracca, ora non hanno nemmeno quella, rasa al suolo dalle forze dell’ordine in una notte d’estate. Quando li saluti e sai che a sera potrai riposare sotto un tetto, ti senti a disagio. Avresti potuto trovarti al loro posto, se solo fossi nato qualche centinaia di chilometro più a est.


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