Welfare
Milano, un sabato sera al Bingo
La sala bingo era affollata. Tantissime le donne che giocavano; la maggior parte straniere. In quello spazio claustrofobico, dalle luci bianche, c'è poco tempo per pensare...
di Anna Spena
A sud-ovest di Milano c’è una sala bingo che idealmente spacca la città e quasi rimarca nell’immaginario di chi in questa città abita la divisione tra la “zona bella” e la “parte brutta”.
Alle undici di sera c’è poca gente fuori la struttura. Sono tutti dentro e qualcuno ancora cerca un posto per sedersi. È sabato. E a riempire quello spazio claustrofobico dalle luci bianche, ci sono – più o meno – 200 persone.
È difficile stabilirlo ad occhio nudo. Tutti uguali. Tutto uguale. In maggioranza stranieri; forse, in maggioranza donne. Ma in una sala affollata la punta del pennarello blu che strisciava sulla carta è stata l’unica impressione viva che disegnava dentro le cartelle possibilità fittizie di una vita che, forse, avrebbero voluto gli appartenesse. L’altro segno – che di vivo non ha niente invece – è stato il ripetersi dei numeri, ovviamente, pure loro, tutti uguali.
Ventiquattro, diciotto, tredici, quarantadue. Poi cinquanta. I numeri tondi sono il vero regalo che fortuna ti fa. Li chiamano a voce piena, si ha quasi l’impressione che la sorte ti stia dando una speranza e il tempo un po’ di tregua.
Ma se il cinquanta non ce l’hai?
Invece ce lo aveva. Eccome se ce l’aveva. 397,80 euro. Bingo! Ha esultato la signora – credo filippina – che avevo di fianco. Però “non è stato un regalo della sorte” avrà pensato. E come avrebbe potuto. Quel numero l’ha proprio cercato. Era già da tre o quattro estrazioni che lo aspettava quel 50. E così ossessiva ha iniziato a disegnarlo sopra il monitor al centro del tavolo, quello poco luminoso, che nessuno guarda mai, dove fugaci appaiono i numeri. Non c’è tempo per distrarsi. Guardare e sentire sono due cose che – insieme – non si possono fare. L’ho vista agitarsi, maledirsi – composta e a bassa voce – e poi esultare, rinascere anche se, quei soldi, di li a pochissimo li avrebbe ripersi in altre mani meno fortunate. Però è stata generosa. E ha pagato il giro successivo a tutti. “Prendete due cartelle a testa, offro io”. Un euro a cartella. Poca cosa.
C’è un meccanismo strano nella scelta delle cartelle. Il signore alla mia sinistra – questa volta marocchino credo – ne ha presa una. Poi ha aspettato che “il ragazzo delle cartelle” facesse il giro per tutti gli altri cinque “ospiti” del tavolo. L’ha richiamato e ha detto “dammene un’altra”. Non ha cambiato idea nel mentre. Sapeva già dall’inizio che le sue cartelle sarebbero state la prima e l’ultima. L’inizio (senza fine). Ha fatto così per tutte le cinque mani che gli ho visto giocare.
Avrà pensato che la sua è un tecnica vincente quando, alla quarta mano ha fatto bingo pure lui. 222 euro e trenta centesimi. Il mio doveva essere proprio un tavolo fortunato. La scena si è ripetuta: “due cartelle a tutti” ha detto. “Per te otto euro di mancia”, ha sussurrato all’orecchio del ragazzo che distribuiva le cartelle. L’ha fatto con una fierezza strana. Come se lui, il ragazzo fosse complice compiaciuto di quella scommessa vinta.
Al tavolo con me c’era solo un italiana. Non ha vinto niente. Se ne stava lì, ferma, seduta, pallida. Giocava e basta, due cartelle alla volta. Non fissava il vuoto. Era il vuoto che le usciva dagli occhi. Non si è mossa neanche una volta, non ha esitato neanche un solo istante. Poi l’ho vista. Alla quarta mano persa. All’ennesimo “bingo di un altro”. Eccola, piegata a testa bassa con la sua vergogna di non “riuscire” a vincere.
Ma a cosa staranno pensando tutti?
Al blu che riempie gli occhi.
Al gioco d'azzardo e alla strategia per sconfiggerlo è dedicata la copertina del numero di febbraio di Vita magazine in edicola da venerdì 5 febbraio
GettyImages/Christopher Furlong
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