Milano, secondo Meyerhold

di Marco Dotti

Qualcuno se lo ricorda ancora, Vsevolod Emilevich Meyerhold? Forse sì, forse no. I tempi sono incerti, specie per la memoria. E in tempi incerti, quando tutto trema, è il futuro stesso a tremare. Forse è meglio ricominciare dai fondamentali. E poi, basta guardarlo in volto, nella fotografia qui accanto per esempio, per capire che gente come lui sapeva guardare al presente, guardando al tempo stesso lontano. Ecco un pezzo del grande regista russo, scomparso nel febbraio del 1940. “Scomparso”, altro termine incerto. Meglio dire le cose come stanno: fucilato. Ma anche qui le cose sono avvolte nell’ombra. Ma è un’ombra diversa, meno cupa – per quanto possa sembrare un paradosso. Nessuno sa come davvero morì Meyerhold. Ciò che si sa per certo è che nel ’39 era stato arrestato e torturato. “Con la cultura non si mangia”, andava dicendo, pochi mesi fa, un ex ministro dell’economia di un ex governo italiano. Sarà, ma il pane non basta. Non solo perché non basta mai, ma perché senza “cultura” (vera, non la spocchia), e senza umiltà, quel pane non sarebbe nemmeno possibile impastarlo, cuocerlo, venderlo – o donarlo. La nostra società di bulimici è incredibilmente anoressica, quando si tratta di cultura. Preferisce scordarsi da dove viene, per evitare di chiedersi dove va. E anche di anoressia culturale, soprattutto di anoressia culturale – si muore. Ecco un testo del grande Meyerhold, su una Milano che è stata grande, anche e a dispetto delle sue miserie. Una Milano che oggi di grande ha solo un’infinita miseria (culturale, appunto) che le cresce dentro e la rovinerà, se non l’ha già rovinata. Opinione mia, potete non condividere. Ma Meyerhold resta, il “resto” non si sa…

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Vsevolod Meyerhold

La vita per le strade di Milano fa pensare alla borsa in un’ora di lavoro. Animazione generale, frastuono di voci, ma niente indica la causa di tanto agitarsi, l’attenzione non si concentra su qualcosa in particolare. La gente aumenta di minuto in minuto in attesa di un comizio.

È un’impressione naturale. Un grande centro commerciale crea sempre un traffico intenso per le vie, e Milano, in verità, è la borsa dei commerci Vi è un’enorme produzione di seta, lanerie, cotonerie e numerosi articoli d lusso, di cui la borghesia ha tanto bisogno e che qui costano pochissimo, mentre gli oggetti di prima necessità sono terribilmente cari, ciò che provoca un naturale malcontento tra le masse operaie.

Grande città commerciale, piena delle piú svariate fabbriche e officine, Milano nutre un vivo interesse per i problemi della vita sociale e politica, non solo propria ma anche mondiale. La fabbrica arricchisci i proprietari ed empie le vie di Milano di una folla sazia e variopinta, fatta di ricchi che viaggiano in lussuosi landò e guardano con l’occhialino, dall’alto in basso, la gente che passa. Ed ‘ sempre la fabbrica a radunare a Milano da tutta la Lombardia un esercito di operai. Esauriti da un lavoro troppo gravoso, essi cercano una risposta ai loro interrogativi, vogliono elevare il proprio livello culturale, comprano Il Secolo, che va a ruba, e seguono con estremo interesse ciò che avviene oltre i confini del loro piccolo Stato. Quando, per esempio, leggono che un’eruzione vulcanica ha sterminato migliaia di persone, di domenica pagano sui tranvai elettrici dieci centesimi piú del normale e raccolgono in un solo giorno dieci milioni di lire a favore dei terremotati. Come dovunque all’estero, gli operai sono vestiti da bellimbusti, e questo viene loro rimproverato dai dirigenti dei partiti di sinistra, perché molti operai cominciano a seguire le cattive usanze della borghesia, sprecano denari in cravatte, bastoni da passeggio e caffè. Ma è interessante osservarli tutti affacendati, non in fabbrica o in officina mezz’ora di intervallo, quando si recano affamati alla “Cucina economica”. È questa una mensa sociale del quartiere operaio, organizzata con mezzi privati e sotto la diretta sorveglianza di una nota signora che svolge varie attività di carattere assistenziale, la signora Ravizza.[1] Quando vedete le figure macilente degli operai, i loro visi smunti, dagli sguardi lievemente impauriti, che importante istituzione diventa ai vostri occhi questo minuscolo edificio in cui un misero operaio può trovare minestra, maccheroni e carne per pochi soldi! Ciascuno di questi piatti costa 10 centesimi; altrettanto, per chi lo desideri, un vino rosso leggero.

Se i viali milanesi ricordano quelli parigini, se i costumi della borghesia milanese palesano impudenza, volgare sazietà e un chiassoso cattivo gusto nel vestire, esistono però nella città numerosi veri intellettuali che hanno a cuore gli interessi dei lavoratori. I loro sforzi congiunti hanno permesso di organizzare a Milano due anni fa un’università popolare, che conta tremila iscritti. Sono studenti, insegnanti, impiegati, avvocati, artisti, pittori, artigiani, commessi. Gli operai iscritti sono soltanto cinquecento, dato che l’università, per forza maggiore, ha per ora la sua sede lontano dalla periferia e il tempo libero dal lavoro di fabbrica è troppo breve. L’insegnamento è impartito di sera, sotto forma di conferenze. Per l’anno venturo si prevedono ore dedicate ai dibattiti. Il corso (da novembre a giugno) è diviso in due cicli. Le materie del primo ciclo s’insegnano da novembre a febbraio; quelle del secondo, da aprile a maggio. Ogni ciclo è diviso in due settori: 1) scientifico e 2) letteratura e arte. Il programma scientifico comprende: fisica, elettrotecnica, economia politica, diritto. L’altro comprende: storia della letteratura italiana e storia dell’arte antica. La parte scientifica del secondo corso è: struttura e funzioni del corpo umano, economia politica, diritto. Nella sezione di letteratura e arte s’insegna: letteratura italiana del secolo XIX e storia di Milano. In gennaio, febbraio e marzo s’insegnano inoltre materie di carattere commerciale: economia commerciale, istituzioni di diritto coanmerciale, merceologia.

Meina (Lago Maggiore), 28 maggio 1902.

Note

[1] Ai russi in visita a Milano si raccomanda di rivolgersi a lei per consiglio; parla infatti la nostra lingua, e avendo conoscenze fra esponenti di diversi gruppi sociali, può dare buoni consigli. L’indirizzo è: Via Andegari, 8 [N.d.a.].

[Tratto da Vsevold Emilievic Meyerhold, La rivoluzione teatrale, a cura di Giovanni Crino, Ediori Riuniti, Roma 1962]


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