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Milano, la sottile linea tra sicurezza e inclusione dei giovani
Milano e il suo hinterland stanno vivendo una recrudescenza dei reati ad opera dei minori. Contestualmente aumentano anche i problemi di abuso di sostanza. Un problema che, se da un lato certamente va affrontato con l’azione delle forze dell’ordine, dall’altro necessiterebbe di una prevenzione educativa e culturale. Ne abbiamo parlato con Ciro Cascone, procuratore capo del Tribunale per i minorenni di Milano
Sui giornali (ad esempio sul Corriere della Sera di oggi) si fa un gran parlare dell’esplosione delle baby gang. Per strada la sensazione è di un aumento della microcriminalità, che a volte poi sfocia in veri e propri delitti, ad opera di giovani e giovanissimi. La percezione è di un aumento dell’insicurezza. Quello che le cronache restituiscono è che però non si tratti quasi mai di delinquenti professionali quanto piuttosto di azioni dovute a reazioni al disagio e alla disperazione. Dove sta la verità e cosa si può fare? Lo abbiamo chiesto a Ciro Cascone, procuratore capo del Tribunale per i minorenni di Milano.
Questa percezione dell’aumento dei reati è solo una sensazione oppure riflette la realtà?
No, c’è certamente un aumento dei reati. Nell’ultimo anno e mezzo abbiamo avuto una certa recrudescenza in particolare di fenomeni di microcriminalità minorile. Che poi vengono veicolate sui giornali con l’etichetta di baby gang, anche se non è affatto così.
In che senso?
Che si tratta di gruppi di ragazzi che non hanno nulla a che fare con le bande di provenienza latinoamericana. Al massimo scimmiottano alcuni atteggiamenti. Parliamo di gruppi non strutturati, liquidi, che rispondono alle stesse logiche delle compagnie giovanili. Gruppi di giovani che stanno insieme e fanno anche reati.
Chi sono questi giovani?
Gruppi misti che riassumono italiani e stranieri, fasce di età differenti e ceti sociali differenti. Ma anche vissuti differenti: ci sono ragazzi che hanno abbandonato la scuola insieme a chi invece studia. Quasi sempre sono ragazzi delle periferie.
Quanto ha contato il Covid?
Certamente molto: con il lockdown e le restrizioni successive naturalmente si ha avuto un’inziale azzeramento dei reati. Sul medio e lungo periodo i giovani poi hanno avuto una reazione di insofferenza e rabbia. Da lì c’è stata una crescita sostenuta. Si è partiti con le risse per poi arrivare ai reati più vari. C’è evidentemente una rabbia enorme. Ma attenzione la crescita della violenza giovanile, e delle rapine a danno di coetanei in particolare, è iniziata molto prima del covid. L’intento predatorio di questi fenomeni è secondario. Inizialmente sono attività messe in atto da ragazzi delle periferie che, venendo in centro, aggrediscono coetanei benestanti per affermare sé stessi.
In ruolo di primo piano lo hanno anche le sostanze…
Sì è un tema molto collegato. I ragazzi di oggi, da anni, fanno un uso delle sostanze molto disinvolto. Le droghe che si trovano in strada sono ormai quasi tutte sintetiche, per cui anche le cosiddette droghe leggere non sono poi così leggere. I ragazzini oggi vivono queste droghe come se fossero già legalizzate e lecite. L’uso di queste sostanze però è chiaro che non ha solo ricadute sulla salute ma anche sui comportamenti.
A Milano l’assessore alla sicurezza Marco Granelli spinge molto sulla repressione dei reati e sull’aumento del controllo delle strade da parte delle forze dell’ordine. È questa la strada giusta?
L’aspetto della sicurezza e della repressione del reato, da magistrato, dico che è importante e che stiamo lavorando con grande rigore. Soprattutto sulle rapine. Con la squadra mobile abbiamo instaurato un dialogo molto intenso su questo lavoro. Il controllo del territorio da parte delle forze di polizia e l’attività investigativa sono importanti. Detto questo è chiaro che però è necessario un lavoro di prevenzione di intervento educativo. Riflettiamo sul fatto che quest’anno e mezzo di pandemia ha comportato un arresto e un ritardo che sarà difficile da recuperare. Non parlo dei percorsi di studi. Un anno perso a 17 anni non si recupera. Se un ragazzo ha imboccato una strada diversa da quella che poteva essere non è per nulla facile tornare indietro. Ad un ragazzo non si possono fare discorsi. Bisogna dare opportunità.
Dal punto di vista concreto cosa si può fare in questo senso?
La prima cosa da capire che questi ragazzi sono invisibili. Per la società e per le famiglie. Ci accorgiamo di loro solo quando ne combinano una. Tantissime volte mi capita di scoprire che il disagio mette i genitori in condizione di non avere la possibilità di seguire i figli. Quindi la prima cosa da fare è un intervento di sostegno alle famiglie. Poi ci sono anche attività di altro genere.
Ad esempio?
Come il protocollo “Bruciare i tempi” che ho costruito a Monza qualche anno fa e che poi ho portato anche sul territorio del pavese. Si tratta banalmente di una modalità di intervento. Per capirlo bisogna sapere come funzionano le cose: quando un giovane viene denunciato il magistrato ha sei mesi per fare le indagini, se il ragazzo deve essere processato dopo sei mesi viene mandato a giudizio. Nel frattempo, viene chiesto l’intervento del servizio sociale che faccia un’indagine socio famigliare sul ragazzo e sulla famiglia. Informazioni che servono ai fini del processo che chiamiamo “indagine di personalità” per capire chi si ha di fronte. Tutto questo ha tempistiche lunghissime. Quando va bene il processo si celebra dopo due anni. Così ci inventammo una semplice modalità in cui al momento della denuncia a carico di un minore comunicano direttamente anche le informazioni necessarie al servizio sociale. C’erano casi virtuosi a Monza in cui dopo 15 giorni dal reato il servizio sociale era già in grado di convocare il ragazzo. Il risultato è che il processo può avvenire nella metà del tempo, a volte anche meno.
Cosa cambiano i tempi?
Tutto. Uno dei principali problemi è che per questi ragazzi sembra che fare reati non abbia alcuna ricaduta. Mi capita spessissimo di processare ragazzi per fatti di anni precedenti che hanno ormai già alle spalle una sfilza di nuovi reati. Significa insomma la differenza tra perdere o meno un giovane. Mettere in atto tutti i mezzi di dissuasione coinvolgendo famiglia, scuola, associazioni, parrocchia in tempi rapidi aiuta tantissimo.
E dal punto di vista della prevenzione prima della commissione del reato?
Serve una rete fatta dalle istituzioni, dalle famiglie, dalle scuole e dagli enti sociali che propongano soluzioni, occasioni, possibilità. Sono tutte attività che possono cambiare le cose, se attuate insieme.
Photo by Andrea Ferrario on Unsplash
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