Cultura

Milano, in cerca di moschea

Lo spostamento (provvisorio) della preghiera del venerdì dal centro di viale Jenner al velodromo Vigorelli. Una non soluzione, dice Pallavicini. Ci vogliono piccoli centri di preghiera legati ai quartieri.

di Sara De Carli

Che dirà la Moratti, nei giorni dell’Expo, ai turisti di fede musulmana che chiederanno dov’è la moschea? Di andare a pregare in uno scantinato o su un marciapiede? La buttano sul glamour e sul marketing, i musulmani, convinti che, visto l’appoggio dato a Milano dai Paesi arabi, almeno un terzo dei 29 milioni di visitatori attesi per il 2015 saranno di fede islamica. E anche la soluzione trovata ieri, di fare la preghiera al velodromo Vigorelli, all’aperto, pur se “temporanea” è definita benevolmente “fantasiosa”.

Per dire che anche i simboli hanno la loro valenza e che far uscire l’islam dai garage è una scelta che fa bene all’Italia e non (solo) ai musulmani. Anche se avere 4mila fedeli inginocchiati su un marciapiade di Milano, ogni venerdì, e altri 60mila sparsi per garage, magazzini e scantinati è indecoroso e inaccettabile per i fedeli stessi, prima e più che per gli italiani. Ne parliamo con Yahya Pallavicini, cittadino italiano nato musulmano da madre giapponese e padre italiano, nel 1965. È l’imam della Moschea al-Wahid di Milano, in via Meda e vicepresidente del Coreis- Comunità Religiosa Islamica Italiana. Dal 2006 è consigliere del Ministero dell’Interno nella Consulta per l’Islam italiano ed è tra i 138 saggi musulmani che hanno scritto al Papa per avviare un confronto interreligioso permanente: il primo forum si terrà in Vaticano dal 4 al 6 novembre.

Perché Milano ha una valenza simbolica nazionale?
I musulmani nel Nord Italia sono la maggiornaza dei musulmani sul territorio nazionale, quindi il come Milano costruisce il rapporto con il plurslimo religioso e con la comunità islamica diventa un esempio, un progetto pilota a livello nazionale.

Nessuna città ha già risolto la questione? Nemmeno quelle come Roma e Catania che già hanno la moschea?
No, nessuna. Tant’è che a Roma è difficilissmo aprire centri islamici e tanto meno luoghi di culto in periferia o nei quartieri dove di fatto vive la popolazione musulmana. La moschea è ai Parioli, l’ha costruita il re saudita, è un caso paticolare. Un esempio positivo invece è Catania, dove la moschea è nata da un ottimo rapporto tra i musulmani locali e le istituzioni, è la dimostrazione che se si lavora in modo trasparente, aperto, franco, le soluzioni si trovano. Un altro buon esempio è Novara, dove la comunità marocchina e la giunta leghista sono riuscite a trovare un accordo. Esempi pessimi invece sono Torino e Genova. A Torino c’è stata mancanza di dialogo con la cittadinanza e un quartiere del centro, Porta Palazzo, è progressivamente diventato una casbah araba, con il centro islamico e tutta una seire di negozi islamici, con zone d’ombra presidiate da una micocriminalità di delinquenza di basso profilo e quindi creando una situazione non di emarginazione ma di oscurità e confusione tra islamicità, stranieri e delinquenza. L’integrazione non può essere emarginazione ma nemmeno sovrapposzione e sostituzione. Genova è diversa ancora. A Genova era stata concessa un’area alla comunità musulmana, per la costruzione di un edificio destinato anche al culto: sarebbe stata la loro cattedrale nel deserto.

È sbagliata l’idea di spostare la moschea in periferia?
Noi come Coreis lavoriamo da anni per favorire l’integrazione degli spazi di culto dei musulani nei quartieri dove naturalmente i musulmani vivono, studiano, lavorano, ogni giorno. Il modello è quello delle parrocchie. Ma non perché i numeri più piccoli sono più facili da gestire: perché è così che si naturalizzano i rapporti tra i fedeli musulmani e il quartiere in cui vivono. Sono contrario, per un discorso sociale, a quel che ha proposto a Milano l’assessore Boni, una sorta di emarginazione destinando al culto un’area dismessa della periferia urbana, dove i musulmani vengano confinati e abbandonati a loro stessi per poter vedere autorizzati i loro diritti di culto. Non la propone solo Boni, anche a Napoli l’idea era quella. Ma attenzione, la questione della collocazione della moschea nel territorio urbano è solo una parte del probema.

Cioè?
Ci sono due problemi, uno di pianificazione e dialogo con i referenti musulani affidabili della città, provincia, regione, nazione. E poi la questione della collocazione nel territorio urbano. Dobbiamo tenere presenti che i piani sono due, altrimenti rischiamo di voler risolvere un falso problema, con soluzioni azzardate o simpatiche come sono da un lato le cattedrali nel deserto e le Chinatown islamiche e dall’altro il velodromo. La strategia d’usicta del Coreis è quella dei piccoli centri sul territorio, ma la questione vera è chi ha la credibilità di assumersi la responsabilità di gestire questi luoghi di culto e formare i responsabili di culto per le moschee di quartiere. La politica deve avere una visione del coordinamento del pluralismo religioso, non può pensare che frazionare i musulmani in periferia o in tante piccole moschee risolva il problema solo perché i numeri sono più contenuti e l’intralcio al traffico minore.

Chi allora può essere questo interlocutore responsabile?
A livello nazionale il ministro Amato aveva messo in piedi una piattaforma federativa dei musumani moderati: se questa matura al punto da diventare un polo di riferimento per l’islam italiano e si organizza a sua volta sul territorio, è un buon putno di partenza. Ma se capiamo che quel processo ha tempi lunghi, bisogna cominciare subito a lavorare localmente. Si rifacciano delle consulte regionali, l’ho proposto a Bologna, mi piacerebbe lavoraci in Lombardia, mi metto a disposizione. Io vedo tre tappe. Un gruppo di rappresentanti della comunità musulmana si presenta alle istituzioni come comitato promotore di gestione di un luogo di culto; questo comitato ottiene, tramite il dialogo con le istituzioni, il cambiamento di destinazione d’uso come luogo di culto; e poi cerca di formare dei dirigenti, dei responsabili e dei predicatori che esercitino la funzione di ministri di culto per il beneficio dei fedeli. Un luogo di culto non deve essere diverso da una qualsiasi chiesa o sinagoga, ci si deve andare per contemplare Dio, pregare, avere un momento di respiro e ristoro spirituale. Le altre questioni – politiche, sociali, culturali – devono trovare altre collocazioni, senza confusione. Su questo il gestore deve essere molto preciso e responsabile.


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