Mondo
Migrazioni: chiavi per capire
Ben l’86% dei 65,3 milioni di persone in cerca di asilo trova oggi accoglienza in Paesi del cosiddetto Terzo mondo e, di questi, 40 milioni trova rifugio in zone più sicure all’interno dei loro confini nazionali. Meno del 10% arriva in Europa. E il solo Libano, spiega Maurizio Ambrosini nel suo ultimo “Migrazioni” edito da Egea, ha accolto più rifugiati siriani di tutti i 28 Paesi dell’Unione Europea messi assieme, «con un’incidenza stimata di 183 ogni 1000 abitanti». E l’Italia? L’Italia è a quota 3 ogni 1000 abitanti
di Marco Dotti
Stando alla definizione delll’Onu, immigrato è chi si è «spostato in un Paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel Paese da più di un anno». Nel suo Migrazioni (Egea, pagine 160, euro 11,90), agile e utilissima summa di tutto quanto dovremmo sapere sul tema, Maurizio Ambrosini osserva che la definizione proposta dalle Nazioni Unite contiene tre elementi. Prima di tutto la mobilità spaziale. In secondo luogo, l’attraversamento di un confine. In terzo, la permanenza prolungata in un certo Paese.
In un momento di forte destabilizzazione, dove «gli immigrati diventano il simbolo di un mondo minaccioso e imperscrutabile che entra in casa nostra» il confine fra “noi” e “loro” diventa sempre più delicato. Lo sanno bene gli operatori politici e della comunicazione che di questa paura trasformata in rancore hanno colto le potenzialità di aggregazione politica. Diventa allora importante – davvero importante – capire chi sono le persone alle quali attribuiamo l’etichetta “immigrati”, decostruendo l’immaginario in cui siamo abituati a immergerci quando parliamo di “loro”. E qui emergono i paradossi: pensiamo ai figli degli immigrati nati sul territorio italiano. Immigrati anche loro? A logica – e se stessimo alla definizione di cui sopra – no.
Eppure, le statistiche li includono proprio alla voce “immigrati. Se spostiamo l’osservazione dal campo definitorio a quello del linguaggio quotidiano, osserviamo che i termini “immigrati” ed “extracomunitari” (concetto che nell’uso comune è finito per sovrapporsi al primo) identificano esclusivamente coloro che provengono da Paesi considerati poveri, finendo per assumere una valenza altrettanto esclusivamente negativa. Lo stesso vale per termini come “migrazione” e “mobilità”: entrambe indicano uno spostamento, ma la prima la usiamo solo in riferimento a persone ritenute povere ed extraeuropee (gli “immigrati”), la seconda agli spostamenti “volontari” di cittadini europei o provenienti da Paesi che nel nostro immaginario non percepiamo come ostili.
È da questi presupposti impliciti, e raramente esplicitati, che quasi sempre muove il nostro discorso su migrazioni e migranti. Per questa ragione, osserva Ambrosini, «l’impiego del concetto di immigrato allude alla percezione di una doppia alterità: una nazionalità straniera e una condizione di povertà». Ma non è sempre così. In questo contesto è infatti possibile distinguere quattro flussi migratori.
Il primo va “dal Nord al Nord” e interessa 50 milioni di persone, generalmente ben qualificate, che godono nel Paese d’arrivo degli stessi diritti del Paese di partenza.
Il secondo è un flusso che va “dal Sud al Sud”, interessa circa 70 milioni di persone, e generalmente i migranti in arrivo ottengono diritti altrettanto scarsi di quelli di cui godevano nei Paesi di partenza. Il terzo flusso è “dal Nord al Sud”, interessa 20 milioni di persone, e difficilmente coloro che si muovono (l’esempio tipico fu, negli anni scorsi, quello dei pensionati piemontesi che si trasferivano in Kenya) incontrano barriere all’ingresso.
Ma è il quarto flusso, quello “Sud-Nord” quello che viene solitamente preso in considerazione quando si parla di migranti. Un flusso con caratteristiche peculiari, basti considerare che le donne ne sono la componente crescente.
Fenomeno sempre più complesso, quello delle migrazioni. La nostra comprensione sembra sempre più schiacciata da un lato dalle banalizzazioni regressive che connotano il nostro immaginario sulle mobilità globali, dall’altro dall’inadeguatezza dei termini fra i quali anche le migliori intenzioni si perdono. Ambrosini, in questo suo utilissimo lavoro, rimarca come «il termine generale immigrati sia sempre meno adeguato per cogliere le varie articolazioni delle popolazioni che si spostano verso i confini e si insediano in maniera relativamente stabile in altri Paesi». Alle migrazioni volontarie, già articolate in sé, si mischiano le migrazioni forzate: e le crescenti difficoltà che incontra chi migra per lavoro ha condotto a un sovraccarico del canale dell’asilo, creando flussi misti e ibridi di sempre più difficile collocazione. E comprensione.
Lo si è visto con le conseguenze della guerra in Siria e del trascinarsi delle vicende irakene. Secondo l’Unhcr, solo una minoranza degli oltre 5 milioni di profughi costretti alla fuga è arrivato in Europa. Ricorda Ambrosini che ben l’86% dei 65,3 milioni di persone in cerca di asilo trova accoglienza in Paesi del cosiddetto Terzo mondo e, di questi, 40 milioni trova rifugio in zone più sicure all’interno dei loro confini nazionali. Meno del 10% arriva in Europa. E il solo Libano, conclude Ambrosini, ha accolto più rifugiati siriani di tutti i 28 Paesi dell’Unione Europea messi assieme, «con un’incidenza stimata di 183 ogni 1000 abitanti».
E l’Italia? L’Italia è a quota 3 ogni 1000 abitanti. Eppure, la percezione – alimentata, va detto, non solo dagli imprenditori del rancore ma anche dai retori dell’emergenza – è che vi sia un’invasione. E questa percezione impatta sul discorso pubblico, specie in un Paese – il nostro – in campagna elettorale permanente.
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