Mondo

Migrare “ad ogni costo”

Un documentario, girato nel rifugio notturno di Lecco, spiega che come come il "Whatever it Takes" di Mario Draghi valga ogni giorno per migliaia di migranti in tutto il mondo che hanno la necessità di migrare

di Luca Cereda

Ha trasformato rifugio notturno di Lecco, gestito da Caritas e che ogni notte d’inverno accoglie chi non ha un tetto, in un set per le riprese: davanti alla macchina da presa il regista Jurij Razza ha raccontato 10 persone provenienti da tutto il mondo – da ogni angolo dell’Africa ma anche dall’America Latina, dall’Asia e dall’Europa stessa -, che sono transitate dal rifugio per raccontare le loro storie di persone costrette, per i motivi più vari, a migrare. Il documentario si intitola “Ad ogni costo” – il Whatever it Takes di draghiana memoria che per queste persone è una sottile linea tra la vita e la morte. «Abbiamo terminato il montaggio di queste storie proprio qualche settimana prima della pandemia. Avevamo paura che queste storie di migrazione finissero nel dimenticatoio, invece a settembre il documentario ha vinto il premio di Miglior documentario all’International Multicultural Film Festival in Australia, il più prestigioso per i documentari che raccontano il mondo e le migrazioni», spiega il regista.

Raccontare le migrazioni “Ad ogni costo”


Le motivazioni che hanno portato alla fuga, spesso accompagnata dalla violenza di guerre che si combattono nella totale nostra indifferenza, o dai cambiamenti climatici; il viaggio; l’arrivo in Italia e un oggetto, un ricordo che riporti agli affetti di ‘casa’ e ai rispettivi Paese di origine le 10 persone che sono testimoni con le loro storie di migrazioni, donne e uomini «scelti con l’aiuto dei referenti territoriali di Caritas, Martina Locatelli e Angela Missaglia, che del rifugio notturno è coordinatrice», spiega Razza.
Il rifugio notturno intercetta vite, che come scriveva il sociologo Zygmunt Bauman la società considera di ‘scarto’, ma senza conoscerle. È significativo che il set del documentario ma anche il punto di ripartenza di queste vite sia il luogo da cui vengono raccontate le migrazioni che ognuna di queste persone ha vissuto.

I sogni nel cassetto


Le storie sono intime e dolorose ma anche piene di speranza e di fiducia nel futuro. Sono vicende che raccontano con umanità, l’umanità: «Infatti “Ad ogni costo” documenta in 38 minuti donne e uomini che hanno deciso di lasciare la loro terra in cerca di un futuro migliore per se stessi, per le proprie famiglie e per i propri figli. Le persone arrivano da Marocco, Mauritania, Nigeria, Costa d'Avorio, Eritrea, Gambia, Kosovo, Pakistan, El Salvador e Ecuador che oggi soffrono crisi locali, corruzione, mancanza di accesso alle risorse primarie e violazione dei diritti umani», analizza Razza.

Tra questi racconti c’è quello di Mohamed che arriva dalla Mauritania. Ha lavorato per oltre 15 anni nel nostro Paese, ma dopo esserci ritornato nel 2014 dopo alcuni anni passati di nuovo in Africa, nel 2016 si ritrova senza lavoro e senza casa. È allora che si è rivolto a Caritas Lecco per avere un pasto caldo e per dormire nel rifugio. La sua è una migrazione per motivi di lavoro, ma per questo non meno dolorosa e faticosa di altre, è per questo che Amed – come lo chiamano tutti al rifugio e nella cooperativa sociale collegata a Caritas per cui lavora oggi – spiega: «Sono più i punti in comune tra i vari popoli che le differenze. Il mio sogno nel cassetto, quello che vorrei realizzare anche da molto vecchio, continua ad essere – confessa – quello di avere un’attività commerciale tutta mia». Quello che rende drammatico in Italia oggi l’integrazione è che ad essa si contrappone l’odio, analizza Amed: «Il clima di razzismo è alimentato della politica, ma è culturale. Se guardi in giardino i bambini giocare, non vedi un bambino nero e uno bianco, non vedi un bambino cristiano e uno mussulmano. Vedi solo dei bambini giocare. Dovremmo sentirci come bambini, pagine bianche da scrivere con l’inchiostro dell’integrazione».

Ad ogni costo | teaser 1 from Jurij Razza on Vimeo.


Migrare salva la vita

Carlos invece ha 13 anni quando inizia ad andare alle manifestazioni contro il regime militare che teneva in pugno El Salvador, il suo paese. «Dopo aver visto i danni che ha fatto la guerra civile ho pensato che fosse sbagliato mettere in galera chi non voleva fare il militare. Secondo me sarebbe dovuto essere proprio il contrario». Per questo inizia a scrivere e diventa giornalista. E come tale si trova a dover descrivere l’orrore delle persecuzioni, anche dopo le libere elezioni: «Ho subito tre attentati per quello che raccontavo. Nell’ultimo mi hanno sparato e sono rimasto gravemente ferito». Così nel 1997 lascia suo Paese, e chiede asilo politico in Italia a Roma, asilo che gli viene concesso.

Nel 2002 un terremoto scuote drammaticamente El Salvador e distrugge l’intero quartiere dove vive sua madre. Carlos torna dopo 5 cinque anni di esilio e capisce che dopo la guerra e dopo il terremoto El Salvador è sempre in mano a gruppi criminali. «Ho iniziato a creare progetti con alcune ong per salvare il futuro dei bambini dalle bande».

Per la seconda volta Carlos diventa una persona scomoda, e come un film già visto, torna a ricevere minacce e intimidazioni. «Per sei mesi non ho lavorato e quasi non potevo uscire di casa. È allora che mia moglie e i miei quattro figli hanno detto “non vogliamo un padre morto”». Carlos guarda fuori dalla finestra della stanza, sembra stia richiamando alla mente quei giorni lontani. Ma non è così: «Ricordo ogni istante di quella notte, parlo con i miei bambini. Un anno e mezzo, sette, dieci, tredici anni. “Papà deve andare”. Era la prima volta che ci separavamo. Lasciare il proprio Paese è una scelta difficile, che spezza il cuore e lasciare la famiglia lo è ancor di più».

Lingue diverse, umanità comune

Per raccontare queste storie è stato indispensabile creare un ambiente intimo, «le persone hanno in sostanza parlato solo alla macchina da presa – spiega Jurij Razza, il direttore del documentario, che aggiunge -. Serviva un contesto in cui le persone si sarebbero sentite a proprio agio, alcuni hanno subito traumi non indifferenti, non è facile raccontarsi, e non tutti sono disposti a farlo, anche per questo abbiamo consentito agli intervistati di raccontarsi con estrema libertà e di parlare nella loro lingua madre». Se la tipologia di montaggio è stata piuttosto semplice, quello che ha richiesto più tempo è stato il lavoro di traduzione una volta terminate le riprese, «era importante avere una traduzione precisa, perché le parole sono importantissime in questo documentario, e oltre alle comuni lingue europee si è dovuto tradurre anche l’arabo, l’albanese e dialetti locali come il tigrino e l’urdu». Alla fine il lavoro si è concluso in piena pandemia, per questo non ci è stato modo di mostrarlo, se non nei festival. L’auspicio di Razza è che con questa vittoria, e per il fatto che dura poco più di 30 minuti, il documentario diventi uno strumento per raccontare ai più giovani nelle scuole le migrazioni.

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