Libri

Migranti: tutto quello che ho visto con i miei occhi

Regina Catrambone, co-fondatrice, insieme alla marito Christopher, dell'organizzazione umanitaria Moas- Migrant Offshore Aid Station, firma un libro che è un racconto in presa diretta della sua esperienza in alcune delle maggiori rotte migratorie del nostro tempo

di Anna Spena

C’è la storia di Yusef, il siriano dagli occhi azzurri. Quando è scoppiata la guerra nel suo Paese lui è rimasto nella speranza che qualcuno venisse ad aiutarlo, ma poi «se vedi che la tua casa inizia a bruciare, ti butti dalla finestra, anche se non hai la certezza che sopravviverai. Mi sono imbarcato perché non avevo più niente da perdere». E quella di Lamin che dal Gambia ha percorso 3.675 chilometri per raggiungere la Libia attraversando Senegal, Mali, Burkina Faso e Nigeria. C’è la storia di Mousse, che è arrivato quando era ancora minorenne, dall’Eritrea a Malta, dove è stato tenuto in un centro di detenzione per migranti sull’isola. E ci sono le storie delle donne del mare come Fatima, rimasta per mesi in rinchiusa in Libia, con la paura della notte, perché di notte arrivavano i guardiani dei centri di detenzione e alcune donne venivano trascinate fuori. O la storia di Somira, 24 anni, che viveva in quella No man’s land tra il Myanmar e il Bangladesh. E c’è anche la sua di storia, quella di Regina Catrambone, che si intreccia con tutte quelle incontrate nelle pagine del libro “Raccogliere il mare con un cucchiaino”, e le tiene insieme. «Donne scomode, che valicano tutte le frontiere, testimoni di disumanità», ha scritto Catrambone, che è l’autrice del libro, co-fondatrice insieme al marito Christopher, di Moas-Migrant Offshore Aid Station, organizzazione umanitaria internazionale nata nel 2013.

Salvataggio in mare dell’organizzazione ©DarrinZammitLupi-MOAS

La mia vita, la mia testimonianza


«Questo libro», racconta, «è la mia esperienza nel lavoro umanitario attorno al mondo. Questa è la testimonianza di quello che ho visto con i miei occhi, di quello che ho imparato, di quello che vorrei condividere con gli altri». Un libro che racconta quello che non vediamo del fenomeno migratorio: «su cui», aggiunge l’autrice, «abbiamo una visione miope perché continuiamo a lavorare a livello emergenziale. Ma questo approccio non porta a soluzioni di medio e lungo termine, porta solo al dispendio di fondi. Dobbiamo stimolare un dialogo costruttivo che possa aiutare a gettare luce sui fenomeni migratori e a superare le paure che ne derivano. Le storie e le riflessioni di cui parlo sono strettamente connesse alle vicende della mia famiglia, che ha deciso di utilizzare i propri talenti e le proprie risorse per aiutare gli altri. Non agiamo come singoli, ma ognuno di noi apporta il proprio bagaglio di esperienze e competenze per raggiungere il fine comune di perseguire quella che io chiamo la “globalizzazione della solidarietà”. Vorrei che questo libro servisse a riattivare il dialogo costruttivo all’interno delle famiglie, nelle scuole, nelle università sui temi dell’accettazione e della condivisione».

Quella giacca galleggiante

Un libro tutto scritto in prima persona, con un linguaggio semplice per arrivare davvero a tutti. La postfazione è stata scritta del giornalista Sergio Nazzaro. Un libro  che parte da un viaggio in barca nell’estate del 2013. Regina con il marito Christopher parte per una traversata da Lampedusa alla Tunisia: «Era un viaggio di lavoro e di piacere insieme, poi una giacca beige che galleggia sulla superficie dell’acqua catturò la mia attenzione: da lì cambiò tutto. Quella era la giacca di un migrante, sentivo la voce di mio marito ripetere ossessivamente “quindi il nostro paradiso (il mare ndr) è il loro inferno?” Il nostro paradiso è il loro inferno. Quella giacca galleggiante, traccia di un naufragio avvenuto, ci riguardava da vicino come esseri umani. Quel giorno mio marito Christopher decise che avrebbe fondato Moas, e io l’ho accompagnato e sostenuto in questa scelta coraggiosa. Salviamo le vite nel Mediterraneo, raccogliamo le persone dal mare, abbiamo missioni umanitarie in Ucraina, lavoriamo con le comunità più povere del mondo, come quella dei Rohingya in Bangladesh, lo facciamo da dieci anni e continueremo a farlo». C’è una parte del volume dedicata al glossario “Parole della migrazione”. «L’ho fortemente voluto», dice la co-fondatrice di Moas. «Dobbiamo spiegare in modo chiaro cosa significano le parole legate al fenomeno migratorio. A volte mi chiedo se ne conosciamo fino in fondo, il significato».

In apertura: Regina Catrambone (Foto: MOAS/Jashim Salam)


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