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Migranti, Quartapelle: «L’Italia aiuta con l’Africa act, ma l’Ue deve venirci incontro»
Altri due naufragi e superate le 4600 vittime in mare in soli 11 mesi. «Numeri pazzeschi. Ci vuole una svolta che stiamo cercando con accordi diretti con cinque Paesi africani e un'investimento iniziale di 200 milioni, ma il Consiglio europeo latita», spiega la deputata Pd
Mai come nel 2016 le persone migranti perdono la vita nel Mar Mediterraneo: 4800 vittime in meno di 11 mesi: un’ecatombe, un genocidio, sono diventati i termini più appropriati. Numeri e termini che urtano ma che non riescono a cambiare di una virgola quello che sta accadendo, “ma rimangono necessari, perché aiutano a fare inquadrare una questione che deve essere centrale nelle agende governative europee: 300 persone morte in un singolo naufragio rappresentano un numero impressionante, 300 volti con storie personali che ora non ci sono più. Non trovare soluzioni collettive al problema rappresenta una sconfitta della nostra società”. Lia Quartapelle, deputata Pd e componente della Commissione esteri, con profonda esperienza analitica delle situazioni dei paesi di provenienza di migranti e profughi, inizia così l’intervista per Vita.it sui temi più urgenti legati alle migrazioni di oggi.
Cosa sta facendo l’Italia per fermare il dramma senza fine in atto nel Mediterraneo?
Sono due le azioni politiche in atto ed entrambe sono rivolte a stringere accordi con i Paesi di provenienza, laddove che ne fossero le condizioni, per ridurre le cause che originano le partenze: uno è il Migration compact, messo in atto con altri governi europei, l’altro è l’Africa Act, che invece è una strategia del tutto italiana. Entrambi comprendono incentivi anche economici e strutturali ai Paesi africani coinvolti, sia per la gestione dei confini, sia per il miglioramento della situazione sociale sul territorio che è complessa anche per l’elevato numero di profughi presenti in questi stesse nazioni: gli ultimi dati parlano di 19 milioni di persone, la maggior parte di loro che vive nei campi attrezzati in condizioni estreme.
In cosa consiste l’Africa act?
In un programma di collaborazione con cinque Stati africani che consideriamo prioritari per numero di abitanti e dinamiche specifiche: Senegal, Niger, Etiopia, Nigeria e Mali. Si prevede un’azione su tre livelli, che verrà approvata con la prossima legge di Stabilità: uno stanziamento di 200 milioni di euro nel 2017, la creazione di un’unita tecnica apposita all’interno dell’Agenzia per la cooperazione, una successiva estensione del sistema a Cassa depositi e prestiti per la parte dedicata alla promozione di attività imprenditoriali in quei Paesi, con fondi che saranno quantificati più avanti.
Perché proprio questi cinque paesi africani?
Sono quelli più affidabili, allo stato attuale. Con il Senegal abbiamo già da anni una relazione, con una migrazione assidua verso l’Italia che ora si sta trasformando in alcuni casi in una migrazione di ritorno. L’Etiopia al di là di alcuni problemi di stabilità interna presenta un governo con cui ci si può relazionare in modo corretto, ed è un Paese terzo centrale e strategico nei flussi migratori attuali, così come lo sono Niger e Mali, questi ultimi a ridosso della Libia, il paese attualmente più problematico dal punto di vista dei diritti umani e punto di partenza dei barconi della morte. La Nigeria, infine, è importante perché è la prima nazione di provenienza in termini percentuali di chi arriva oggi in Italia, e il proprio governo negli ultimi tempi ha attuato leggi anticorruzione che fanno aumentare la fiducia nei suoi confronti.
Come essere sicuri che i 200 milioni di euro siano incisivi per lo scopo e non finiscano invece in mani sbagliate?
È stato difficile recuperare tali fondi, ancora di più quindi è importante che ogni singolo euro sia speso dove merita: i controlli saranno dettagliati per evitare sprechi. Si punta alla creazione di impiego così come alla gestione dei confini e alla riammissione nel paese di provenienza di persone già presenti in Europa, per questo è fondamentale che ci siano le condizioni necessarie per questi migranti di potere tornare nel loro paese con un progetto di vita sostenibile.
In queste settimane l’Unione europea, attraverso il programma Eunavfor Med, sta addestrando la Guardia costiera libica al controllo delle frontiere e alla gestione dei flussi. Nello stesso tempo, le organizzazioni umanitarie denunciano un’efferatezza sempre maggiore dei trafficanti verso i migranti in partenza dalle stesse coste libiche: come potrà migliorare la più che pessima situazione attuale?
Facendo un passo alla volta, capendo che la Libia oggi non è uno Stato che funziona bene, e quindi non ci si può aspettare un cambiamento improvviso, ma dall’altra parte non è una nazione distrutta come la Siria e quindi un percorso può essere messo in atto. Ci sono segnali positivi: l’addestramento è quasi a metà delle otto settimane previste, poi sarà operativo. La riduzione del conflitto armato è tangibile in quest’ultimo periodo così come la diminuzione della presenza dei miliziani di Isis nel Paese. Infine, le azioni congiunte con l’attuale governo di transizione – l’ultima delle quali lo scorso 1 novembre a Londra con gli accordi intrapresi tra Ue e Banca centrale libica – fanno intravedere un miglioramento in corso, lento ma presente, come mi confermano fonti dell’ambasciata italiana in Libia.
Dai ieri anche la Cei, Conferenza episcopale italiana, è entrata a pieno titolo nella creazione di corridoi umanitari, aggiungendosi a Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese evangeliche e Comunità Papa Giovanni XXIII. Lodevole, concreta azione di enti religiosi e della società civile in collaborazione con il ministero degli Esteri italiano, che però non trova riscontro a livello di Consiglio d’Europa. Perché la Ue non apre tali canali umanitari?
L’Unione europea sul tema delle migrazioni sta rivelando una mancanza di affidabilità senza precedenti, ovvero c’è un’impressionante assenza di fiducia tra gli Stati membri che fa gridare allo scandalo. Se per quanto riguarda il viaggio in mare qualcosa è stato fatto attraverso le azioni dell’Agenzia Frontex, per quanto riguarda la gestione di chi è arrivato siamo all’anno zero: nessuno mette sul tavolo dell’agenda politica europea la necessità di gestire le centinaia di migliaia di persone arrivate in Europa negli ultimi anni, nemmeno dal punto di vista di un accordo comune con i Paesi di provenienza sul rimpatrio di chi – e i numeri sono in continuo aumento, dati i dinieghi delle domande di asilo – non ottiene il riconoscimento dell’asilo e rimane sul suolo europeo da irregolare. Questo a tutti gli effetti si sta rivelando un modo pericoloso di affrontare l’integrazione europea, perché complice la crisi economica sta creando allarme e risentimento sociale. Il presidente del Consiglio italiano se la prende con l’Europa in modo sempre più energico proprio perché sta lasciando Paesi di frontiera come l’Italia a gestire da sola il fenomeno senza nulla in cambio, oltre a non raggiungere accordi sulla ripartizione tra Stati membri (dei 160mila ricollocamenti previsti dal 2015 al 2017, a oggi ne sono stati effettuati 15mila, ndr).
Cosa dovrebbe avere in cambio l’Italia dalla Ue?
Incentivi dal lato occupazionale. Gli effetti del mix di austerità da una parte e mancata integrazione dall’altra stanno creando fratture sociali devastanti, e che l’Unione europea non intervenga in tal senso è un atto criminale: non puoi gestire l’integrazione delle persone immigrate senza gestire l’occupazione di tutti, italiani e stranieri. La Germania, Paese più ricco, ha fatto da sola, investendo 25 miliardi in due anni con una legge specifica per inserire socialmente i rifugiati, l’Italia non può farlo da sola, va aiutata. Per esempio non è possibile che oggi i corsi di italiano ai richiedenti asilo, salvo poche eccezioni, siano lasciati al volontariato, che fa molto ma non può fare tutto. L’Europa deve aiutare l’Italia in tal senso, perché bisogna dare una mano a entrambi, sia chi viene accolto sia chi accoglie.
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