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Migranti, non solo problemi: ecco le buone pratiche di accoglienza
Un saggio presentato a Cagliari fa un focus sulla situazione in Italia. Curato da due ricercatrici del Cnr, parte dai corsi di formazione per operatori di Sprar e Cas in Sardegna e propone alcune eccellenze nazionali, quelle di Bologna e Roma. Una materia in continua evoluzione: non tutto va male ma dal mondo della ricerca e del Terzo settore arrivano le proposte per migliorare il sistema
Tre casi studio che fanno luce su “Le buone pratiche del sistema di accoglienza” in Italia. Il voluminoso libro curato da due ricercatrici del Cnr, Alessandra Cioppi e Maria Elena Seu, arriva dopo un lungo e tortuoso cammino tra i centri che accolgono i migranti. Una raccolta dati rallentata più volte dalla pandemia ma che ha saputo valorizzare la gran mole di materiale prodotto durante i corsi di formazione per operatori del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati – Sprar e per i Centri di accoglienza straordinaria – Cas in Sardegna, che ora altre regioni vogliono replicare per elevare il livello di quanti si occupano di questa materia complessa e in continua evoluzione.
La presentazione del saggio, che si è tenuta ieri alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Cagliari, è soltanto una delle tappe di un lavoro interdisciplinare e multidisciplinare che proseguirà nei prossimi anni. E non solo perché si assiste a un continuo turbinio di norme e leggi in ambito nazionale e internazionale. Il libro ha tante peculiarità: i casi studio possono essere colti come proposte operative per migliorare la qualità e l’impatto degli interventi verso i migranti e, di conseguenza, della nostra società che li accoglie; in secondo luogo, illustra nei dettagli il progetto “Migrazioni & Mediterraneo. L’Osservatorio Sardegna” che ha messo e continua a mettere a confronto istituzioni varie (tra cui ministero dell’Agricoltura, sovranità alimentare e delle foreste, ex Mipaaf, Anci, Unicef, Croce Rossa, atenei), gli operatori dei centri di prima e seconda accoglienza e del Terzo settore, i tutor dei minori stranieri non accompagnati, gli stessi migranti. Un confronto aperto e costruttivo, che ha fatto emergere ciò che va (le cosiddette buone pratiche, come le gestioni dell’hub Mattei di Bologna e del Centro Astalli di Roma) e ciò che invece va corretto. Nella speranza che Governo e Regioni recepiscano i suggerimenti del mondo della ricerca e del Terzo settore.
Non è un caso se questo progetto dell’Istituto di Storia dell’Europa mediterranea, tra i 90 migliori del Cnr, è stato premiato per aver perseguito la cosiddetta terza missione, favorendo l’applicazione diretta, la valorizzazione e l’impiego della conoscenza per contribuire allo sviluppo sociale, culturale ed economico della società. «Questo è ciò che tutte le università dovrebbero fare, aprendosi al mondo esterno anziché rinchiudersi nelle torri d’avorio che esse stesse hanno costruito. Nel nostro piccolo ci tentiamo», ha commentato Nicola Melis, professore associato in Storia e istituzioni dell’Africa all’ateneo cagliaritano, che ieri ha aperto i lavori.
Tra i modelli virtuosi emersi in questi anni, uno riguarda il progetto Orto. «Lo abbiamo proposto a Sassari e ha avuto un successo insperato», ha spiegato Alessandra Cioppi. «Partito per consentire ai giovani migranti ospitati in due Cas del territorio sassarese di fare esperienza nell’ambito delle colture ortive, ha coinvolto numerosi anziani di “Casa Serena” di Sassari e persone con varie disabilità che hanno sposato l’iniziativa. I partecipanti hanno poi ricevuto un attestato che possono spendere nel mercato del lavoro. Il corso di formazione ha permesso loro non solo di acquisire le tecniche agricole ma anche il senso della coltura e della cultura dell’orto, dal periodo medievale ai giorni nostri, passando per gli orti di guerra durante il secondo conflitto mondiale. Un’esperienza che si coniuga benissimo con gli orti sociali che si stanno moltiplicando in tutto il Paese, ma che comunque offre prospettive occupazionali a molti giovani che faranno un colloquio nelle imprese agricole».
Questo specifico progetto è raccontato nel “Volume dell’Orto”, un libro scritto dalle stesse Cioppi e Seu che nel settembre 2021 è stato presentato a Milano. Tra le iniziative in corso d’opera, citata una dell’Itd, l’Istituto per le tecnologie didattiche del Cnr, che sta mettendo a punto un nuovo software per consentire ai migranti un più facile apprendimento dell’italiano. «Quello della lingua italiana è uno dei tanti temi toccati durante il corso di formazione», ha detto Maria Elena Seu. Questo è certamente uno degli elementi chiave dell’integrazione di coloro che arrivano da Paesi e culture tra i più disparati.
«Il percorso di mediazione linguistica e culturale spesso viene dato per scontato, invece non lo è affatto», ha sottolineato Mette Rudvin, docente inglese dell’Università di Palermo. «Pensate alle difficoltà che i migranti affrontano in tribunale o in questura, non riescono a capire e a farsi comprendere, quindi viene leso il loro diritto di difendersi adeguatamente. Ho visto di frequente interpreti che non sono formati nell’ambito specifico: è un problema che in Italia si avverte moltissimo. La negoziazione dei rapporti interpersonali nel mondo giudiziario è estremamente difficile e delicata: da una parte ci sono i diritti della persona, dall’altra i problemi di sicurezza della comunità. È un aspetto che riguarda un po’ tutti i Paesi del mondo: il fenomeno del terrorismo internazionale talvolta è stato agevolato da cattive traduzioni di testi o intercettazioni, penso a casi celebri come le Torri Gemelle di New York e la strage di Madrid del 2004».
Il professor Melis ha raccontato alcune esperienze personali di mediazione linguistica. «Spesso si innescano problemi per clamorosi malintesi causati dalla mancata e reciproca comprensione. Quando in Sardegna arrivarono i primi profughi dall’Afghanistan, qualcuno si chiese chi sapesse parlare e capire la lingua afghana, che non esiste. In quel Paese si parlano il pashto e il dari (quest’ultimo è una delle denominazioni della lingua persiana, ndr). Il dari viene parlato anche in Iran e in Tagikistan, mentre il pashto è la lingua ufficiale del Pakistan. E in Sardegna, soprattutto a Cagliari, risiedono tantissimi pakistani che possono essere coinvolti in queste attività. Come vedete, a volte non si riescono ad affrontare i problemi per la mancanza della necessaria competenza in materia».
Vi è poi un altro aspetto non marginale. «Il dibattito intorno alla migrazione come fenomeno di mobilità umana è caratterizzato, in Italia negli ultimi anni, da una narrazione di tipo emergenziale», ha ricordato la dottoressa Seu. «Nel tempo però si rivela come il segno strutturale dei nostri giorni. Le migrazioni devono fare i conti con l’emergenza reale e quella percepita».
Due dati fanno comprendere meglio il concetto: nell’Africa sub-sahariana i bambini rappresentano il 47% della popolazione, in Europa i pari età sono appena il 17%. «Una forza dirompente che, nel prossimo futuro, si affaccerà inevitabilmente nel continente europeo», è stato il commento di Bianca Maria Carcangiu dell’Università di Cagliari.
Tra le criticità emerse negli ultimi anni, ce n’è una che è stata illustrata dal giornalista cagliaritano Sergio Nuvoli, dal 2007 tutore di bambini stranieri non accompagnati. «In genere arrivano in Italia all’età di 14-16 anni. È difficile spiegare loro che devono andare a scuola: molti di loro non l’hanno mai fatto, la quasi totalità lavora sin dalla più tenera età. Senza un bravo mediatore culturale, salta il banco. Di recente mi è capitato il caso di un ragazzo che stava creando seri problemi in un Centro di accoglienza. Sono andato a parlarci e mi ha detto: “Non accetterò mai che una donna mi dia degli ordini”. Non è giusto o sbagliato, soltanto fa parte di una cultura completamente diversa dalla nostra. Tuttavia, è impensabile che in molte comunità ci siano soltanto mediatrici e nemmeno un mediatore. C’è un corto circuito che va risolto. La formazione è sempre più importante, e occasioni come questa aiutano a superare gli ostacoli».
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