Politica

Migranti? No, grazie. Così Bruxelles continua a lavorare per rendere l’Ue una “fortezza”

A Varsavia i ministri degli Interni dei 27 hanno discusso la possibilità di adottare nuove regole sui rimpatri dei migranti irregolari, prendendo come riferimento il fallimentare modello italo-albanese voluto da Giorgia Meloni. Tra le ipotesi sul tavolo anche quella di rivedere la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Intanto i controlli alle frontiere interni allo spazio comunitario aumentano

di Francesco Crippa

Migranti? No, grazie. A Bruxelles si continua a lavorare per rendere l’Unione europea sempre più una fortezza. Dopo il semestre di presidenza ungherese, la musica non sembra essere cambiata con l’avvento del premier polacco Donald Tusk alla guida del Consiglio dell’Ue. Proprio a Varsavia, il 30 gennaio si è tenuta una riunione informale dei ministri degli Interni. Tema: immigrazione, sicurezza e difesa. Svolgimento (almeno per il punto uno): trovare un modo per respingere i migranti irregolari.

«Stiamo lavorando a nuove regole più severe sui rimpatri», ha scandito il commissario agli Affari interni, l’austriaco Magnus Brunner. «Nessuno capisce perché persone che non possono stare qui non vengono rimpatriate». Così, al summit di Varsavia la presidenza polacca ha sottoposto ai ministri un «discussion paper» in cui (riassumiamo per sommi capi) si suggerisce che le attuali norme internazionali non siano più adeguate a fronteggiare il fenomeno migratorio di oggi. «Questi principi sono stati sviluppati dopo la fine della Seconda guerra mondiale ed erano caratterizzati da una situazione geopolitica molto diversa da quella odierna», recita il paper. Non a caso, strategie per evitare di accogliere le richieste di asilo sono in corso da tempo. Tuttavia, continua il documento, le «limitazioni all’applicazione» del diritto di asilo che, ora come ora, possono essere adottate solo «in situazioni straordinarie» non bastano più. Dunque, «è importante considerare se la situazione attuale sia semplicemente temporanea o se sia già una nuova realtà. Se quest’ultima ipotesi è vera, invocare la natura straordinaria della situazione non può giustificare l’uso di sole norme derogatorie e deve essere preso in considerazione un riferimento più ampio alle sfide che affrontiamo». Di qui, appunto, l’urgenza di discutere del tema: «La mancanza di alternative all’accettazione delle domande di protezione internazionale e il rispetto del principio di non respingimento richiedono certamente una discussione approfondita». 

Quest’ultimo punto è stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, la quale, a leggere tra le righe, potrebbe dunque venir presto sottoposta a revisione. Il principio in questione, d’altronde, è sempre più spesso messo in discussione non solo a parole ma anche nei fatti. Un esempio è il Governo italiano, che in questa vicenda è assurto a modello. Le ipotesi ventilate per cambiare il quadro normativo attuale, infatti, prendono spunto dalle mosse fatte dalla squadra di Giorgia Meloni. Innanzitutto, la costruzione di hub in Paesi terzi, come quelli costruiti da Roma in Albania, dove piazzare i migranti che non possono essere rimandati nel loro Paese di origine. L’Ue ci pensa da maggio, ma finora non sono trapelati indizi che lascino intendere che la Commissione inserirà la proposta nella bozza di nuove regole sui rimpatri che dovrebbe presentare a marzo. Secondo un diplomatico dell’Ue intervistato dal quotidiano specializzato in affari comunitari Euractiv, a non voler questo inserimento non sono solo gli Stati contrari ma anche quelli favorevoli, che vorrebbero evitare di veder nascere una discussione infuocata su un’idea che è ancora da sviluppare. In ogni caso, la Polonia ha avvisato che «la capacità delle società degli Stati membri di ospitare un gran numero di migranti è sempre più messa alla prova». Una soluzione come quella degli hub – è la posizione dei favorevoli – potrebbe essere utile soprattutto come deterrente, perché disincentiverebbe le partenze oppure favorirebbe l’accettazione, da parte dei migranti, degli accordi di rimpatrio volontario.

A giudicare dall’efficacia che sta avendo la soluzione pensata da Meloni con i centri a Shëngjin e Gjadër, i dubbi in questo senso sono più di uno. Tuttavia, la presidente del Consiglio continua a essere vista come un riferimento da chi vorrebbe chiudere le frontiere. Non è solo l’accordo con l’Albania a piacere, ma anche quelli con Libia e Tunisia per delegare alle loro navi, attraverso fondi Ue, il respingimento dei migranti intercettati al largo delle rispettive coste. Un meccanismo su cui l’esecutivo comunitario non ha battuto ciglio, esattamente come non ha fatto nel caso dei respingimenti alla frontiera operati dalla Grecia, che per quelle pratiche è stata condannata dalla Corte europea dei diritti umani.

Trovare un modo per non accogliere i migranti – che sia spedendoli in centri costruiti in Paesi terzi o evitando direttamente che possano partire verso l’Europa – non è ancora una priorità, ma certo nei prossimi cinque anni l’argomento sarà di scottante attualità. Anzi, lo è già ora. Sono sempre di più, del resto, le capitali che pur momentaneamente sospendono gli Accordi di Schengen, che dal 1985 permettono ai cittadini dei 29 Paesi aderenti di muoversi dall’uno all’altro senza controlli alla frontiera. Al momento, sono nove quelli che hanno reintrodotto controlli su tutte o alcune frontiere: Italia, Francia, Germania, Austria, Svezia, Danimarca, Slovenia, Paesi Bassi e Norvegia. Da nessuna parte, di fatto, sono state riattivate le vecchie frontiere di un tempo, si tratta più che altro di controlli temporanei, ma il fatto che a imporli siano Governi di colori diversi lascia intendere quale vento stia soffiando sul continente. Paradossalmente, a definire «inaccettabile» la sospensione di Schengen applicata a settembre dalla Germania era stato proprio il polacco Tusk, fautore dell’Europa-fortezza.

Credit foto European Union

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