Economia
Migrant Bank/ Il PIL a colori
Sono il 4% della popolazione, ma da soli producono l8,8% del reddito nazionale. Oltre un terzo delle imprese individuali è gestita da uno straniero...
Certamente è un numero che deve far pensare: il reddito prodotto dagli immigrati – che sono circa il 4% della popolazione – incide per l?8,8% su quello nazionale, per un valore di oltre 111 miliardi di euro nell?ultimo anno. La stima, recentissima, è dell?Istituto Tagliacarne ed è contenuta nel rapporto di Unioncamere presentato al governo a maggio in occasione della Giornata dell?economia. Una stima che supera il dato reso noto a fine 2006 dall?Agenzia delle Entrate, secondo cui il ?Pil degli immigrati?, ovvero il loro contributo al Prodotto interno lordo dello Stivale, nel 2005 è stato di 86,7 miliardi, vale a dire il 6,1% del valore complessivo. La differenza è che lo studio prodotto per Unioncamere ha tenuto conto anche del lavoro irregolare, integrando i dati ufficiali con le stime prodotte da istituti di ricerca sull?immigrazione, quali l?Ismu di Milano.
Ma c?è un altro fenomeno sorprendente. Il Sole24ore lo ha chiamato «la carica degli immigrati imprenditori». Oltre un terzo delle nuove imprese individuali in Italia (per l?esattezza il 34,3%) ha un imprenditore di provenienza extracomunitaria. Gli immigrati imprenditori sono circa 228mila, con un tasso di crescita del 10% l?anno. Nella sola provincia di Milano si contano oltre 20mila imprenditori stranieri residenti, seguono Roma (16mila), Torino (10mila) e Firenze (7mila).
«Il numero delle imprese individuali da qualche anno si va assottigliando», spiega Claudio Gagliardi, direttore del Centro studi di Unioncamere, «e un?inversione di tendenza l?abbiamo grazie agli immigrati, specialmente nei settori del commercio e dell?edilizia e in alcuni comparti del manifatturiero. Le imprese degli immigrati si concentrano attorno alle grandi città, Milano e Roma in particolare, o intorno ad alcune aree industriali».
Ma dove va a finire la ricchezza prodotta dagli immigrati? Per il 62% è spesa in Italia, il 16% va nei Paesi d?origine e il 22% diventa risparmio (fonte Abi-Cespi). Non mancano «le questioni spinose», come le chiama Otto Bitjoka, camerunese di nascita, economista e imprenditore da trent?anni in Italia. «Una fra tutte l?accesso al credito da parte degli imprenditori immigrati. E il rapporto con le banche: solo il 3% degli immigrati dichiara di aver richiesto prestiti bancari, e dall?altra parte il sistema creditizio deve ancora trovare degli strumenti innovativi adatti a cogliere i cambiamenti avvenuti. Un altro problema sono i rapporti interbancari deboli con banche e istituti finanziari dei Paesi di provenienza». Una conferma viene da Enzo Napolitano, direttore di Etnica, network per l?economia interculturale (www.etnica.biz): «È vero che il 57% degli immigrati ha un conto in banca, ma solo con servizi base e un accesso al credito molto basso». Che i numeri inizino ad essere imponenti lo conferma il recente dato reso noto da Poste italiane: sono 400mila i correntisti extracomunitari e 200mila i possessori di Postepay, la carta di pagamento elettronico.
Eppure quello degli immigrati resta, secondo una ricerca di Etnica, un «risparmio invisibile», dice Napolitano. «Non c?è un solo consorzio fidi per imprenditori immigrati, le banche sono rigide, si fidano molto poco, chiedono molte garanzie. Ma anche i normali prodotti bancari sono ancora pochi e poco visibili». Napolitano chiede più coraggio: «Le banche i prodotti per gli immigrati li tengono sotto il bancone, sembra che abbiano paura di sporcarsi l?immagine. Bisognerebbe invece azzardare esperimenti di venture capital. Una best practice è quella di Emilbanca, che è entrata con un finanziamento nel capitale sociale della cooperativa Ghanacoop. Non per filantropia. Si tratta di investimento di capitale in un progetto imprenditoriale, che però sa attendere e capire».
Dall?altra parte, tra gli extraimprenditori, c?è chi cerca di fare rete. È il caso di José Galvez, ecuadoregno, 40 anni, laurea in economia e master alla Bocconi in Management of immigration, che ha fondato la testata online Impresaetnica.it, con l?idea di creare un riferimento e un luogo (non solo virtuale) di confronto per gli imprenditori immigrati. «Bisogna dire che molti immigrati sono diventati imprenditori per caso, cogliendo l?opportunità del lavoro autonomo come una via di permanenza legale in Italia», sottolinea. «Ma c?è anche una voglia enorme di emergere ed andare avanti, e capacità di rischiare. Però è ancora difficile per un immigrato presentarsi a una banca con il suo business plan e ottenere credito. È una questione anche di reputazione, di immagine. In Italia c?è ancora diffidenza, prevale l?immagine dell?immigrato povero, che non conosce la lingua e non è in grado di organizzare il lavoro».
Invece le cose stanno cambiando velocemente. Come dimostra il caso di Milano che, spiega Galvez, «è di sicuro la capitale dell?impresa etnica strutturata». È all?ombra delle Madonnina che stanno nascendo le prime associazioni di imprenditori immigrati (oltre a Interetnica c?è Aipel, fondata da Augustin Mujyarugamba, ingegnere ruandese (www.immigratimprenditori.it). Ma anche i primi tentativi di accompagnamento, come Asiim – Associazione per lo sviluppo dell?imprenditorialità immigrata a Milano, uno sportello gratuito realizzato da Formaper della Camera di commercio di Milano.
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