Cultura

Michela Murgia si confessa

Ha vinto il premio 2010. Il suo libro ha per tema l'affido

di Benedetta Verrini

Noi di Vita non avevamo dubbi: Michela Murgia, con Accabadora (Einaudi) ha vinto la 48esima edizione del Premio Campiello 2010. Una vittoria schiacciante, con 119 voti su 300. Ha dedicato la sua vittoria a Sakineh. L’avevamo intervistata all’indomani dell’uscita del suo libro, nel novembre 2009. Un ritratto intenso, appassionato della sua Sardegna e del sistema sociale che per secoli ha protetto i bambini attraverso un’affiliazione in cui venivano definiti “fillus de anima”. Ecco l’intervista integrale.

La solitudine ci ha presi ostaggio. La famiglia non è più il filo di una rete, è solo un nucleo. E questo è un male. Lo sa bene Michela Murgia, che con il suo “Accabadora”, uno dei migliori romanzi italiani di quest’anno, parla di famiglie che s’incontrano secondo una regola completamente diversa. Quella della comunità. Bisogna stare in Sardegna e bisogna ascoltare parole antiche, come fillus de anima, per capire. A lei, che fill’e anima lo è stata, questa società fatta di famiglie-monadi che si cullano in una retorica stucchevole e programmano persino la propria fine, davvero non piace.

Vita: Cominciamo dalle parole. Che cosa sono i fillus de anima? Bambini in affido?

Michela Murgia: E’ una situazione differente per logica e per contesto. La logica dell’affido è: sottrazione alla famiglia d’origine e addizione a una nuova famiglia. Qui abbiamo una moltiplicazione. La pratica dei fill’e anima non sorge in una situazione di conflittualità. Il termine stesso fa sottintendere che ci sia una relazione preesistente alla domanda, che le due famiglie già si frequentino e che il bambino abbia una conoscenza diretta della persona che “lo chiede in figlio”. Ed ecco un altro elemento distintivo: la volontarietà. Tutti devono essere d’accordo e il bambino stesso, quasi sempre in un’età tra i 10 e i 14 anni, deve dare il suo consenso. Direi che i fill’e anima sono gli unici a cui viene chiesto di nascere. La comunità locale sostiene e certifica questo passaggio di patria potestà che però non recide i legami di sangue. Non è un meccanismo facile da capire, perché a noi oggi manca il forte contesto relazionale di co-genitorialità che era proprio delle piccole comunità rurali, dove la solidarietà era l’unica forma di stato sociale possibile. Le cose che per noi oggi sono inaccettabili perché ce le aspettiamo dai servizi sociali allora le faceva il vicinato, lo stretto parentado.

Vita: Quanto è ancora attuale questa tradizione?

MM: Il più giovane fill’e anima che ho incontrato è nato nel 1984, dunque è ancora una pratica in essere. Certo, è in decrescita perché la mentalità sta cambiando e anche nei paesi in Sardegna si comincia a sentire la necessità di una burocrazia. Quarant’anni fa nessun pezzo di carta poteva valere più del consenso di un intero paese. Infatti le uniche testimonianze le abbiamo nei testamenti: i fill’e anima venivano nominati eredi dalle famiglie che li avevano accolti. Spesso quelle disposizioni date in punto di morte sono straordinarie, commoventi lettere d’amore.

Vita: Lei stessa è fill’e anima. Come è stata la sua esperienza?

MM: E’ stata atipica. Nel mio caso il “passaggio” si è realizzato molto tardi, a cavallo dei 18 anni, perché mio padre non era d’accordo. E’ stato doloroso, però mi ha condotta anche verso opportunità, prevalentemente quella di studiare, che non avrei mai potuto avere nella famiglia naturale. Mia madre questo l’aveva capito benissimo, ecco perché era disposta, con ambivalenze, a questo cedimento.

Vita: Perché in queste famiglie “d’anima” non ci si chiama “mamma” e “figlio”?

MM: Perché quelli sono termini legati al sangue, mentre l’essere fill’e anima è legato alla volontà. Nessuno ti dirà mai “però è sempre tua madre”. A Cabras si usava una parola per definire il bambino dentro la pancia, si diceva: i strangiu, che non vuol dire estraneo, vuol dire proprio straniero, sconosciuto. Lo trovo molto bello, perché indica che il bambino è un mistero per la sua stessa madre. E spesso, dopo questo “appuntamento al buio”, si passa tutta la vita a farsi perdonare di non essere proprio come ci si aspettava. Tra anima e fill’e anima questo gioco non comincia mai, perché chi mi ha scelto ha scelto proprio me e mi ha chiesto anche il permesso.

Vita: Perché la nostra società non sa più accudire?

MM: Credo che l’insistenza teorica, ontologica, sulla famiglia come cellula della società (e penso anche alle pressioni cristiane sul tema, di cui mi sento compartecipe perché sono credente e praticante), abbia esasperato una deresponsabilizzazione della società. La cultura che descrivo nel libro non ha in grande conto la famiglia in quanto tale, perché i compiti familiari sono estesi su un’intera comunità. L’idea di accentrare tutti i compiti sulla famiglia è certamente più economico, in fondo è un potente ammortizzatore sociale. Però lo è sempre meno in una società che non è strutturata per fare famiglie ma solo per creare lavori.

Vita: La famiglia è stata sovraccaricata di compiti?

MM: L’esasperazione dell’idea di famiglia come un nucleo ha fatto venire meno l’orizzontalità. Il tuo vicino di casa non si sente più corresponsabile dei tuoi figli, se i bambini giocano in strada nessuno si sogna di rimproverare il figlio di un altro, per l’indebita ingerenza su un bambino che non è tuo. Ogni volta che sento il Papa parlare di famiglia naturale, devo dire la verità, non sono d’accordo. Per me la famiglia è un fatto culturale, tanto è vero che esistono culture in cui c’è un’intera generazione dietro a un bambino. Se è davvero naturale, allora attenzione. Perché diventano naturalmente familiari tutti i compiti di cura e assistenza che una famiglia da sola non è in grado di sostenere, in una società come questa, dove siamo più concentrati sulla produzione che sulla relazione.

Vita: C’è solitudine nella vita e anche nella morte. Cosa c’è di diverso dall’azione della mitica accabadora rispetto alla moderna eutanasia?

MM: Tutto. L’azione dell’accabadora è antitetica all’eutanasia. Un po’ perché s’inserisce in questo discorso di relazionalità in cui si sviluppava anche l’accudimento dei bambini. Oggi viviamo in una realtà molto tecnica e performante, dove ti è richiesto un certo standard per essere pienamente accettato. Tutto quello che scende sotto questa linea, la malattia, la vecchiaia, la morte, è oggetto di una negazione costante. Le basi antropologiche dell’accabadora erano completamente diverse, e quando mi sento dire: “Ah, ma lo facevamo anche noi in Sardegna…”, penso che intanto diciamo “noi”, mentre non c’è niente di noi oggi. In una cosa come quella di Eluana Englaro, chi può identificare quale noi c’è stato dietro? L’idea dell’autodeterminazione è tutta moderna. L’idea di scrivere un testamento biologico dove tu escludi chiunque altro dall’intervento non soltanto sul tuo presente, ma addirittura sul futuro, mi sembra un modo per far diventare la solitudine esponenziale.

Vita: Cosa pensa del dibattito sull’eutanasia?

MM: Non vedo alcun dibattito sull’eutanasia. Vedo casi limite portati a paradigma. Non si poteva fare una legge su Eluana. Non voglio che sia l’emergenza, che copisce alla pancia, a dettare i ritmi della riflessione. Io ho trovato molto più problematica la questione Welby. Perché se sei in grado di esprimere una volontà così ferrea nessuno ti può dire che sei un agonizzante. E proprio perché c’era quella volontà io l’avrei presa in considerazione. Perché lì c’era un “noi”. C’era una moglie, c’erano persone al suo fianco che avevano accettato quella come una decisione consapevole. In quel caso, devo essere sincera, avrei tentennato.

 

La biografia

La Murgia, classe 1972, ha esordito nel 2006 con il libro Il mondo deve sapere, originariamente concepito come un blog. Nel romanzo ha descritto satiricamente la realtà degli operatori telemarketing all’interno di un call center, mettendo in luce le condizioni di sfruttamento economico e manipolazione psicologica a cui sono sottoposti i lavoratori precari nel settore.

Il libro, nato da una sua personale esperienza lavorativa, è diventato l’opera teatrale “Il mondo deve sapere” di David Emmer, con Teresa Saponangelo, e ha ispirato la sceneggiatura cinematografica del film “Tutta la vita davanti” di Paolo Virzì.

Prima di Accabadora, che ha trionfato al Campiello, ha pubblicato, sempre per Einaudi, “Viaggio in Sardegna.  Undici percorsi nell’isola che non si vede”.

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