Francia
Michel Barnier, il mediatore risoluto con il pallino dell’economia sociale
«L'uomo scelto da Macron come primo ministro a Parigi ha lasciato tracce di grande rilevanza, rafforzando prima le politiche regionali dell’Ue e poi diventando nel secondo mandato un promotore convinto dell’economia sociale». Il ritratto dell'ex presidente del Cese, Luca Jahier
di Luca Jahier
Ci sono voluti due mesi al Presidente Macron per trovare la quadra, dopo la profonda crisi politica innescata dalle elezioni europee, la convocazione inattesa di elezioni politiche lo scorso 30 giugno e 7 luglio e settimane di profonda crisi politica, con un Parlamento balcanizzato quale mai prima d’ora. Michel Barnier dunque è Primo Ministro, con l’incarico di formare un nuovo esecutivo.
Volto noto del neogollismo transalpino, il 73enne ha alle spalle una vita nelle istituzioni, sia nazionali che europee. Sarà il premier più anziano della Quinta Repubblica e succederà a quello più giovane di sempre, Gabriel Attal, ha iniziato la sua carriera politica a 21 anni in Savoia, è stato eletto deputato a soli 27 anni e poi rieletto altre sei volte (cinque da deputato e due da senatore) e ha ricoperto per quattro volte ruoli ministeriali a Parigi (all’Ambiente, agli Affari europei, agli Esteri e all’Agricoltura). La sua traiettoria politica è tutta nel centro-destra neogollista ed è un centrista: dal Rassemblement pour la République (Rpr), la casa dei conservatori di Jacques Chirac e critici della linea di Valéry Giscard d’Estaing, Barnier si imbarca nel 2002 nell’Union pour un mouvement populaire (Ump) di Nicolas Sarkozy, per confluire nel 2015 nel nuovo partito nato col nome di Les Républicains (Lr), del quale ha cercato, senza successo, di vincere le primarie per le presidenziali nel 2022, con una campagna molto centrata su immigrazione e sicurezza.
Una carriera intervallata da una pausa europea, che tra il 1999 e il 2004 lo vede commissario alla Politica regionale sotto la presidenza di Romano Prodi. Barnier tornerà poi Bruxelles nel 2009 da eurodeputato per poi diventare commissario europeo al Mercato Interno tra il 2009 e il 2014 durante la seconda commissione Barroso, cui aggiunse anche infine la delega per l’industria.
In questo profilo europeo ha lasciato tracce di grande rilevanza, rafforzando prima le politiche regionali dell’Ue e poi diventando nel secondo mandato un promotore convinto dell’economia sociale, in un dialogo molto significativo con le rappresentanze di questo mondo e con il Cese (comitato economico e sociale europeo). Sua fu l’iniziativa della Social Business Initiative, assieme ai commissari Tajani e Andor. Un progetto fondamentale per far uscire l’economia sociale dal freezer europeo in cui giaceva da molto tempo e lanciare un nuovo impulso per creare un ecosistema favorevole a queste imprese, che lui ha sempre ritenuto cruciali per le nuove sfide dell’economia sociale di mercato europea. Fu poi l’autore della revisione del pacchetto della direttiva sugli appalti pubblici, che entrò in vigore il 28 marzo 2014 e nella quale furono previste alcune norme di riconoscimento della specificità delle imprese sociali. Infine, volle la grande Conferenza sull’economia sociale di Strasburgo del 16 e 17 gennaio 2014, promossa dalla Commissione europea e dal CESE, con oltre 1500 presenze, il cui documento conclusivo è diventato un punto di riferimento dirimente. A lui l’economia sociale europea deve certamente molto.
Purtroppo non fu scelto come candidato alla Presidenza della Commissione europea, perché il Partito popolare europeo gli preferì Jean Claude Juncker: da Parigi e Berlino soprattutto era giudicato troppo “indipendente” e poco malleabile… Ma fu presto richiamato in servizio per il compito che probabilmente gli ha dato più lustro, quello di negoziatore capo per la Brexit, dopo lo scellerato referendum voluto da Londra. Incarico che svolse dal 2016 al 2021.
Da Presidente del Cese ho avuto modo di avere un rapporto molto regolare e diretto con lui, dal 2018 a fine 2020 e ricordo tre aspetti rilevanti: la sua fermezza e risolutezza nel non cedere mai di un millimetro sulla difesa della primazia del diritto europeo e di non concedere nessuno sconto o vie di favore su questo ai britannici, la sua pazienza infinita di fronte ad una controparte che molto spesso non aveva alcuna proposta concreta che non fosse “Brexit is Brexit”; la sua grande apertura al dialogo e all’ascolto di tutti, in particolare delle rappresentanze degli interessi economici e della società civile. Nei suoi numerosi interventi nella plenaria del Cese ha sempre ricevuto lunghissimi applausi di tutta l’aula: se l’Europa non si è frantumata in quel difficile negoziato, salvaguardano anche porte aperte a future cooperazioni con Londra è senza dubbio merito suo.
Entro i primi di ottobre dovrà presentare al Parlamento francese il progetto di bilancio 2025 e il Piano fiscale strutturale per i prossimi 4 o 7 anni, a seguito della riforma del Patto di stabilità. Il compito è già di per sé impervio, visto che la Francia ha un deficit che potrebbe toccare il 5,6 per cento nel 2024 e arrivare al 6,2 per cento l’anno prossimo. Il tutto in presenza di una procedura europea per disavanzo eccessivo contro Parigi (e altre sei capitali, inclusa Roma). A lui la missione impossibile di trovare i modi per le convergenze possibili, anche con un governo di minoranza, che possa traghettare la Francia almeno per i prossimi mesi e senza alimentare ostilità antieuropee. Difficile fare previsioni sull’esito del suo tentativo, ma certamente ha la statura per osare tale impervia scommessa politica,
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