I latini dicevano nomina sunt omina (un nome un destino), o più comunemente al singolare nomen omen. E di nomi, in questi mesi, ne ho pensati tanti, finché il 31 dicembre scorso, alle 20.57 è nata mia figlia. Le è stato imposto Nora Futura. E seppur la scelta fosse determinata non solo da motivazioni personali ma anche da una buona quota di esigenze estetiche, a quanto pare i romani avevano ragione. In questi pochi giorni di conoscenza con questo scricciolino esagitato infatti ho scoperto come il nome le calzi come un guanto.
La scelta su Nora, comunemente considerato un ipocoristico diminutivo di Eleonora, era dettato quasi esclusivamente dal gusto di mia moglie, che voleva un nome breve, che non desse alibi a soprannomi e storpiature. Il fatto che la chiami già Norina dopo meno di una settimana ha fatto naufragare ogni proposito. In realtà però Nora è un nome con una storia un po’ diversa. Storia che ho scoperto solo in seguito e che mi ha messo al riparo dalle smorfie insoddisfatte degli amici con una spiccata vena religiosa. Nasi che si storcevano perché «non esiste una santa Nora». E invece c’è Santa Senorina di Vieira, abadessa benedettina di Basto, Portogallo. Senorina o Senhorinha (signorina), da cui deriva appunto Nora, non era naturalmente il suo vero nome ma l’appellativo con cui la chiamava affettuosamente il padre, Adolfo, conte di Basto. Un vezzeggiativo che diventerà il suo nome da religiosa. La festività cade il 22 aprile. I vezzeggiativi e il rapporto col padre, il mese di aprile che è anche quello del mio compleanno e il legame con San Benedetto e l’Umbria con cui sono molto legato sono una serie di coincidenze bene auguranti.
Com’è evidente, nella scelta dei nomi, santi, preti e papi, non sono esattamente il mio immaginario. Molto più importante per me è sempre stata la musica. Ed ecco perché ne scrivo qui. C’è da sempre, o almeno da che ne ho memoria, un nome che mi ero ripromesso avrei usato nell’eventualità di una figlia. Ricordo anche quando lo pensai: avrò avuto sei anni, ero in macchina, sdraiato come di consueto sul sedile posteriore e fissavo la tristissima moquette grigia degli interni della mitica Alfa Romeo Arna. Lo stereo cominciò a diffondere Futura.
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Mio padre, mancato pochi anni fa, non era un grande cultore o fruitore di musica. Ascoltava pochissime cose per lo più in macchina. I dischi ascoltati ossessivamente ad ogni spostamento erano “Dalla” di Lucio Dalla, “Concerti” di Paolo Conte, “Emozioni”e “Amore e non amore” di Lucio Battisti, la raccolta “Legend” versione deluxe di Bob Marley e infine tutti e tre i volumi che compongono la “The Bootleg Series” di Bob Dylan. A lui devo anche il mio primo disco. Un introvabile live album di Jimi Hendrix comprato ad una bancarella di 6 tracce dal titolo “Fire”. Seppure gli ascolti non fossero molto vari la ripetitività permetteva non solo la memorizzazione ma anche l’approfondimento dei pezzi. Molti di quelle canzoni le porto ancora con me e ad ogni fase della vita ne scopro nuovi risvolti e nuovi aspetti.
Tornando a Futura il motivo della scelta di chiamare così mia figlia non è tanto dato dalla strofa in cui il cantautore bolognese canta «e se è una femmina si chiamerà Futura… sarà diversa, bella come una stella, sarai tu in miniatura». Allora ero troppo piccolo per interessarmi di donne e amore, o per capire che la canzone è in realtà la descrizione di un amplesso tra due persone che si amano e vorrebbero avere un figlio. Quello che mi entrava dentro, da buon figlio degli anni ‘90, era qualcosa che riuscivo a capire sin da bambino: l’incognita angosciata del domani. Le paure e le ansie di chi si chiede domani «su che cosa metteremo le mani, se si potrà contare ancora le onde del mare, e alzare la testa»? Domande che si impongono in un mondo che «sembra fatto di vetro e sta cadendo a pezzi come un vecchio presepio». Ancor di più di fronte alla prospettiva di mettere al mondo un bimbo.
E sta qui la bellezza e la grandezza di questa canzone, e quindi di questo nome. Nella risposta che Dalla fa dare ai due, un risposta di speranza e fiducia nel futuro. «Il tuo cuore lo sento, i tuoi occhi così belli non li ho visti mai. Ma adesso non voltarti, voglio ancora guardarti, non girare la testa. Dove sono le tue mani? Aspettiamo che ritorni la luce, di sentire una voce, aspettiamo senza avere paura, domani».
Più che un nome quindi è un auspicio, una promessa, una speranza e un augurio. E mia figlia è già Futura, perché guardandola per la prima volta negli occhi, nata da pochi secondi, mi sono accorto che la vita è l’unica risposta possibile alla morte. Un’assurdità forse. Ma vera. La mancanza prematura di un padre può trovare sollievo solo in una nuova vita e un nuovo inizio. Nei pianti disperati notturni, nei pannolini sporchi, nei seni gonfi di latte di una mamma stravolta e nel sonno abbandonato di una bimba. Con la memoria di ieri, vivere la quotidianità di oggi con la speranza nel domani. Questo è il primo insegnamento che Nora Futura ha dato al suo papà. Proprio come il suo nome, che è sempre stato suo e l’ha scelta.
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