Welfare

«Mia figlia, 12 anni, è viva grazie ad un trapianto»

Lucrezia ha rischiato di morire a causa di una patologia genetica rara, il morbo di Wilson. Poi un trapianto le ha salvato la vita. Oggi sua mamma, Michela Musante, racconta questa esperienza in un libro e girando nelle scuole. «Sento il dovere di condividere cosa significa vedere una figlia spegnersi sotto i propri occhi in una manciata di ore e risorgere solo in virtù della morte di un altro»

di Sabina Pignataro

È una storia di tragedia e rinascita, quella di Lucrezia, che a soli 12 anni ha affrontato un trapianto epatico totale come unica soluzione possibile ai sintomi gravissimi e in fase terminale di una patologia genetica rara, il morbo di Wilson.

«Io e la mia famiglia – racconta Michela Musante, la mamma – non avevamo mai sentito parlare di questa malattia, un assassino silenzioso e infido che dalla nascita, a causa della mancanza di un prezioso enzima sul cromosoma 13, colonizza e infine soffoca in una morsa di rame che non riesce a essere smaltito dal corpo tutti gli organi vitali, uno dopo l’altro, a partire dal fegato». Lucrezia venne salvata in extremis, grazie alla diagnosi tempestiva di ottimi pediatri dell’ospedale di Erba, dove fu all’inizio ricoverata; diagnosi confermata dai medici del Papa Giovanni XXIII di Bergamo, dove fu trasferita d’urgenza mentre scivolava verso il coma. Inserita quindi in cima alla lista trapianti nazionale ed europea la sera stessa dell’arrivo a Bergamo, «che scoprimmo essere un centro di eccellenza per la ricerca e lo studio di alcune rare patologie e soprattutto per la trapiantologia pediatrica».

«Dopo otto giorni arrivò l’organo che salvò la vita a Lucrezia: quel fegato era parte di una persona, che attraverso un gesto di solidarietà estrema e di generosità realizzato post mortem dai suoi famigliari, ha permesso a un perfetto sconosciuto di differire l’appuntamento con un decesso inevitabile».

Mamma Michela ha raccontato questa esperienza nel libro "L’Ospite. Storia di un trapianto", in cui ’organo viene definito il «il sacro “ospite” a cui rendo onore e omaggio».

Michela e Lucrezia hanno deciso di non tenere per sé questo racconto ma di portare in giro per l’Italia la loro testimonianza: nelle librerie, nelle biblioteche, ma soprattutto nelle scuole. «Desideriamo testimoniare il valore della “social catena”, come raccontava il poeta recanatese, quella solidarietà fra umani che dovrebbe essere pane quotidiano ma che più che mai nell’orrore degli incidenti inattesi, delle catastrofi naturali o delle malattie impreviste deve o dovrebbe manifestarsi subito, con urgenza e senza porsi troppe domande. Si corre verso i dolenti, si segue la traiettoria delle urla disperate e delle richieste di aiuto: si va come si può e con ciò che si ha e si dona. Si scava insieme, si accoglie chi fugge dalla paura e si abbracciano i feriti. Si nutre e si consola, come dall’alba dei tempi è giusto che sia. Per restare umani. Perché tutti conosciamo o sapremo lo strappo della malattia che fiacca corpo e anima, del lutto inatteso che lascia increduli e in generale ognuno di noi, nessuno escluso, farà l’esperienza della mortalità. Di una finitezza a cui non vogliamo pensare ma con cui sarà necessario fare i conti. Questo va detto, ricordato e memorato senza stancarsi. Questo va fissato nella pietra e scolpito nei cuori dei giovani, a cui saranno affidati il tempo e la cura del futuro».

Ecco il senso di girare per le scuole e stare tra i banchi e dietro una cattedra o nelle aule magne delle scuole di ogni ordine e grado: «Per raccontare agli studenti, con semplicità e chiarezza, ma senza fare sconti o paludare verità scomode dietro la carezza di un’inutile finzione, cosa siano la morte cerebrale, le malattie che non danno tregua né speranza e l’occasione preziosa di rimandare l’incontro con la brutta e vecchia signora armata di falce. Si muore e si rinasce, si moltiplicano gli anni per alcuni e per altri il tempo termina brutalmente. Può essere un ictus fulminante o un assurdo incidente stradale. La vita e la morte sono ferocemente intrecciate, a ogni istante, e nessuno possiede capacità profetiche per divinare il futuro. Proprio e altrui. Non esiste Cassandra, però esiste Ippocrate, che con arti abili e conoscenze in divenire cerca di salvare vite, tenendo organi pulsanti fra le mani e spostandoli tra corpi feriti. Uno in partenza e l’altro strappato all’Ade, appena un attimo prima della caduta. Ecco la poetica e tragica ma al tempo stesso magnifica e foriera di speranza realtà della Donazione. Di organi, midollo e tessuti».

Lo scopo degli incontri con i ragazzi, che l’Aido e l’Admo organizzano e promuovono con abnegazione e grazie all’aiuto fattivo e concreto di centinaia di volontari, è principalmente quello di fornire informazioni e formazione sulle problematiche riguardanti la solidarietà, la donazione, il trapianto di organi e il valore inestimabile della vita.

Michela Musante partecipa in prima persona e come diretta testimone di ciò che accade, stravolgendo passato, presente e futuro: «Racconto cosa si prova quando si entra brutalmente in contatto con un mondo che prima si era conosciuto solo in modo marginale e a cui spesso ci si accostava con paura e con scaramanzia». A proposito dei trapianti, osserva, «ho appreso molto più di quanto avrei mai immaginato. E ora sento doveroso condividere con gli altri l’esperienza emotiva e viscerale di madre che ha visto una figlia spegnersi sotto i suoi occhi in una manciata di ore e risorgere solo in virtù di uno squartamento, di espianti e reimpianti. Di lacrime e sangue, tanto sangue. Altrettanto importante è raccontare ciò che ho visto e imparato, in modo diretto e indiretto, dopo settimane in terapia intensiva e in reparto, parlando con luminari della trapiantologia e con rianimatori sempre in trincea»

Il racconto agli studenti

Michela è insegnante alle superiori da molti anni e parlare con i ragazzi è il suo nutrimento e la sostanza dei giorni. «Ho vissuto momenti di profonda commozione, ho firmato copie del libro che ragazzi solo all’apparenza spavaldi ma in realtà emozionati e intimiditi mi porgevano. Ragazzi in gamba e curiosi, mai in modo morboso o fine a se stesso, bensì guidati da sapienza del cuore e volontà di andare oltre le apparenze. Ragazzi diversissimi tra loro per inclinazioni e interessi ma accomunati da giovinezza implume ed energia che deve trovare il proprio sbocco. Giovani che trasudano passione e a volte noia, ma che chiedono senso e stimoli agli adulti. Studenti non sempre motivati a stare sui manuali ma determinati a capire ciò che gli si propone, se lo si fa con un linguaggio diretto e privo di fronzoli. I giovani sono quasi sempre migliori di come li immaginiamo ed etichettiamo: parlando con loro, ho avuto continue conferme che se comunicavo, come ho sempre fatto e farò, con estrema sincerità e coraggio ciò che mi è accaduto, come ho reagito agli eventi ma anche i dilemmi etici e spirituali che mi hanno messa in ginocchio, ebbene, questi ragazzi si facevano di colpo seri e concentrati. Sono stata accolta con rispetto, con attenzione partecipata, ho risposto a ogni domanda, anche le più difficili. Anche quelle che in parte, lo confesso, mi costringevano a interrogarmi di nuovo, lì con loro, su ciò che in me dopo una simile frattura è rimasto irrisolto. Ho attraversato numerose crisi, nella mia esistenza, come molti di noi. Non sempre le ho affrontate con gli strumenti giusti e adeguati, a volte mi sono lasciata sprofondare nel dolore. Disarmata e impotente. Fragile. Questo, senza fare sconti a me stessa, ho voluto condividere con gli studenti. E loro, insieme ai generosi docenti che mi hanno invitata e che hanno assistito, spesso in lacrime, agli incontri, mi hanno ripagata con un virtuale abbraccio di solidarietà e pura gioia che conferiscono senso e mettono ogni cosa al suo posto. Testimoniare, essere testimone attivo di vita, morte e rinascita. Esserci per raccontarlo, perché si tramandi il valore. La cultura del dono di sé. Perché gli altri siamo noi. Ora e qui».

In apertura, Lucrezia e sua mamma, Michela Musante

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