Formazione

Mezzogiorno: occhio allo sviluppo drogato

Dietro al boom del Sud, la crescita di un modello ma anche l’attività dei Comuni per sanare la questione dei lavoratori socialmente utili. Parla il presidente del consorzio Gesco

di Francesco Agresti

Il Sud sembra fatto apposta per creare l?eccezione che conferma la regola. La legge che ha riconosciuto giuridicamente le cooperative sociali, la 381 del 1991, delega a quelle di tipo A l?esercizio di attività nei settori socio-sanitari ed educativi e a quelle di tipo B, l?inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Ebbene, nel Mezzogiorno le prime svolgono nella maggior parte dei casi entrambe le funzioni. «Particolarmente in Campania», conferma Sergio D?Angelo, presidente del consorzio Gesco, una delle principali realtà consortili dell?Italia meridionale, «si è verifica una sorta di distorsione della legge 381. Mentre la normativa riserva alle cooperative di tipo b l?inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati e a quelle di tipo A l?esercizio di attività sociali, sanitarie ed educative, da noi l?inserimento lavorativo è frutto dell?attività svolta soprattutto dalle cooperative di tipo A; proprio queste, infatti, con la loro attività, sviluppano una serie di servizi creando nuovi posti di lavoro. All?inserimento di soggetti svantaggiati provvedono in molti casi le stesse amministrazioni locali con iniziative che coinvolgono soprattutto i lavoratori socialmente utili, quelli di pubblica utilità impiegati nella gestione dei parcheggi, in attività di manutenzione o pulizie». Contaminazione di culture diverse Sergio D?Angelo si occupa di cooperazione sociale prima che questo termine fosse giuridicamente coniato: nel 78 costituisce una cooperativa in una delle periferie più difficili di Napoli, il Rione Traiano. Poco più che ventenne comincia a occuparsi di problemi legati al disagio giovanile, l?evoluzione dell?attività della cooperativa segue di pari passo quella dei problemi dei ragazzi, così la coop estende il suo raggio di azione mano a mano che i soci ampliano le loro competenze. «La nostra è stata un?esperienza nata dalla voglia di occuparsi degli altri e il nostro lavoro è il frutto della contaminazione della cultura laica con quella cattolica. Fin dall?inizio il nostro impegno è legato all?emancipazione di soggetti che non intendevano starsene con le mani in mano, ma che non avevano la benché minima intenzione di fare della cooperazione il loro mestiere». Quelle stesse persone negli ultimi dieci anni hanno costruito una delle realtà consortili più importanti del Sud Italia. Nelle regioni meridionali le cooperative trovano un terreno fertile almeno in termini di domanda latente. In Campania vi è il minor numero di coop sociali ogni 100mila abitanti e un sistema di Welfare di cui tutto si può dire tranne che sia strutturato in maniera efficiente. «Credo che nel Mezzogiorno ci sia più bisogno della cooperazione sociale che altrove», prosegue D?Angelo, «il bisogno nasce fondamentalmente dalla necessità di sviluppare un sistema di servizi socio-sanitari ed educativi che in alcuni casi manca del tutto o presenta gravi carenze» . Negli ultimi anni nel Sud Italia si è registrato un incremento delle nascite di cooperative sociali superiore alla media nazionale. Ma a voler veder tra le righe, questo sviluppo così repentino può nascondere alcune insidie. «Dall?emanazione della legge 381 fino al 2000», puntualizza D?Angelo, «ne erano state costituite circa 600. Negli ultimi due anni il numero è raddoppiato: questo fenomeno, oltre a essere un chiaro sintomo di un settore in pieno sviluppo, getta qualche ombra sulla solidità delle strutture avviate». Il riferimento è alle tante realtà costituite dagli ex lavoratori socialmente utili e sponsorizzate dai Comuni. Ma cosa serve per favorire lo sviluppo della cooperative sociale nel Mezzogiorno? «La cooperazione può crescere, e lo dimostrano i fatti, solo dove vi è consapevolezza della necessità di dare autonomia a forme organizzate in grado di fornire risposte adeguate sul piano qualitativo. Stiamo scontando ancora i problemi posti dalle contraddizioni della legge 328. Molti Comuni e realtà del Terzo settore sono state colte impreparate, un gap che si va lentamente colmando ma preoccupa ancora». Fra autonomia e cooptazione La pubblica amministrazione rappresenta spesso uno dei primi interlocutori della cooperazione, un rapporto che, a volte, rischia di diventare asfissiante. «In questi rapporti, la condizione ideale è quella che vede gli amministratori disposti a mettersi in gioco sperimentando percorsi alternativi e modelli di relazione innovativi. È necessario che sia radicata una cultura favorevole alla realizzazione di politiche sociali che partono dal basso, lasciando ampio spazio alle forme di impresa sociale. La Campania, per esempio, ha messo a punto un piano sociale che probabilmente è uno dei migliori d?Italia. Spesso invece si assiste a una sorta di cooptazione verticale di coop cui sono affidati servizi ma che dipendono totalmente dalle decisioni pubbliche divenendo di fatto costola dell?ente affidatario». Una cooperazione, questa, senza un futuro autonomo, destinata a diventare strumento di gestione del consenso. Nulla a che vedere con le finalità della ?sana? cooperazione sociale.


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