Non profit

Mettiamoci in gioco diventa un brand

I Comuni italiani dovrebbero distinguere tra "gioco di abilità e gioco di sorte", sostenendo il primo contro il secondo. E' quanto invita a fare la campagna Mettiamoci in Gioco, che per degli adesivi chiede ai comuni cifre variabili da 50 a 500 euro, senza specificare che cosa sia "gioco di abilità" (per la legge italiana lo sono anche le slot machines)

di Marco Dotti

C'è il tariffario, scaglionato per popolazione residente.  E c'è il decalogo su – testualmente – “strategia, pianificazione e creatività”.

Per affiliare un comune sotto i 5mila abitanti bastano 50 euro più Iva, per i comuni sopra i 25mila la somma decuplica e diventa di 500 euro più Iva. Per i comuni intermedi, cifre intermedie: 250, 350 e via discorrendo. Che cosa viene assicurato? Spot gratuiti su alcune radio non meglio identificate e vetrofanie.

Considerando che i comuni, in Italia, sono 8.057, solo intercettandone un migliaio si raggiungerebbe un cospicuo budget finanziario, anche di qualche centinaia di migliaia di euro.

A chiedere questa somma è la campagna Mettiamoci in gioco, oramai declinatasi in termini di brand (il termine è usato da loro stessi, nei comunicati stampa) e immagine. Nulla di male, solo che nel decalogo strategico che la campagna di Don Armando Zappolini sta inviando ai comuni appare, quasi in tono minore, un invito ai comuni a «distinguere tra gioco di “abilità” e gioco di “sorte”, sostenendo il primo in chiave sociale e collettiva contro il secondo».

Quali sarebbero, per don Zappolini e i suoi, i giochi di abilità da sostenere non è dato saperlo. Chi sperpera capitali al Gratta & Vinci gioca “abilmente” o tenta la sorte? Chi consuma la vita sua e altrui davanti a una macchinetta gioca “abilmente” o tenta la sorte? Chi punta su eventi sportivi, reali o virtuali, tenta la sorte o scommette abilmente? Questo lo dovrebbe spiegare non tanto il redivivo don Zappolini che, dopo la bufera sul protocollo firmato e subito ritirato con Confindustria Gioco, si ripresenta nelle vesti e sulla poltrona di portavoce della suddetta Campagna.

A emettere fattura ai comuni interessati alla brandizzazione di Mettiamoci in gioco è, poi, CNCA, il Coordinamento di cooperative presieduto da don Armando Zappolini. A diffondere nei comuni la campagna è invece Angela Fioroni di Legautonomie, già promotrice di una raccolta di firme per una proposta di legge con la quale si è aggiunto un tassello all'inferno delle buone intenzioni.

La Fioroni si premura di indicare nel documento la propria mail edi  raccogliere il materiale presso i comuni interessati. 

 

Leggiamo nel testo della “pianificazione strategica” – forse in tempi antichi gli estensori del progetto hanno letto Lenin, chissà – che deve essere dato impatto alla “drammatizzazione” del giocatore e che occorre “creare un brand specifico della campagna, vivace e vitale, riconoscibile e positivo, di premio per il gioco “vero” contro quello “a rischio”.

Ancora: qual è il gioco vero? Quale quello a rischio? Chi lo decide?

Nelle tavole della legge della comunicazione buona e corretta si invita infine a non dare nell'occhio, non insistendo su attività e iniziative che potrebbero essere tacciate di proibizionismo. Singolare affermazione, questa, visto che a dare del proibizionista a chi non la pensa come lui è in particolare proprio don Zappolini. Come dire: state buoni o vi nominiamo – come all’Isola dei Famosi.

Resta poi una questione, legata allo slogan “Liberi dal gioco d’azzardo” – l’art director indicato è Mauro Terlizzi, esperto in comunicazione politicache anche nella scelta dei colori ricorda quelli di Libera.

 

 

In un convegno tenutosi il 17 novembre scorso, alla Camera dei Deputati, un manager serio come Maggi di Sisal ha d'altronde riconosciuto apertamente il lavoro che Libera e il Connaga di Matteo Iori – aderente alla campagna – hanno fatto per il contrasto al gioco d’azzardo illegale.

Da parte sua, nello stesso convegno (qui) Iori ha sostenuto che per avere stime davvero scientifiche sul numero dei malati in Italia occorra chiederle (anche) a chi quei malati li produce, ossia la filiera del gioco con cui "serve collaborazione".  Questo proprio mentre altri operatori della filiera tanto invocata da Iori avanzavano ipotesi di querela contro chiunque metta in dubbio la veridicità di alcuni dati e affermi la pericolosità sociale dell'azzardo industriale e di massa.

Il bersaglio  specifico da parte di alcuni di questi operatori erano le dichiarazioni di Paolo Jarre della Società Italiana Tossicodipendenze (qui), ma sembrava più un avvertimento generale. L'aria che tira, in effetti, non è buona per chi vuole intervenire nel concreto. Jarre parlava di lacrime di coccodrillo da parte degli stessi operatori della filiera, che piangono sulle eventuali norme della prossima Legge di Stablità, esattamente come piangono lacrime molti di coloro che pensano di finanziare un business sul recupero dei giocatori e pretendono di avere carta bianca nella riflessione sui "numeri".

Nulla di che, si dirà, ma qualcosa, sia detto francamente, stona. Stona il vuoto di idee di chi si occupa di welfare e cura. Stona la virata "marketing" e stona pure la richiesta di soldi ai comuni. Ma forse "brandizzarli", brandizzando sé stessi è solo l'ammissione della propria impotenza dinanzi al concreto. 
Incanalare la critica al gioco d'azzardo nell'ennesima strada senza uscita non serve quasi a nessuno. Quasi.

 

 

 

 


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