Innovazione tecnologica

Metaverso, in una colonia penale sarda la prima visita medica a distanza

Un progetto della Asl di Nuoro approda nella struttura di Mamone, a oltre 50 km di distanza dalla città. Si parte con i consulti di psichiatria e fisiatria, con i medici dell'ospedale San Francesco. Si tratta della prima iniziativa del genere in un istituto di pena italiano

di Luigi Alfonso

«Buongiorno, signor Rossi. Come sta?». Il nome è di fantasia, per motivi di privacy, ma è cominciata più o meno così la prima visita medica a distanza effettuata a un paziente-detenuto della colonia penale di Mamone. La prima con questa innovativa modalità in un istituto di pena italiano. Alle 10.30 di qualche giorno fa, rispettando in pieno il cronoprogramma prefissato, il dottor Giuseppe Falchi, medico psichiatra del Servizio psichiatrico diagnosi e cura dell’ospedale San Francesco di Nuoro, ha eseguito la prima visita al “paziente X”. Falchi in quel momento si trovava esattamente a 54 chilometri di distanza dalla struttura che ospita circa 150 detenuti (un tempo erano 400) che scontano una parte degli ultimi tre anni di pena. Supportato da un tecnico della società State 1, lo psichiatra ha indossato il visore e, dalla sala appositamente allestita nella Casa della comunità “San Francesco” di Nuoro, ha iniziato il consulto che introduce nella fase operativa il progetto Metaverso, che consente di erogare servizi sanitari da remoto in una realtà penitenziaria.

Lo psichiatra Giuseppe Falchi applica il visore a un paziente

Per il periodo iniziale, sono psichiatria e fisiatria i due ambiti al centro del progetto che, in via sperimentale, si pone l’obiettivo di migliorare l’efficienza dell’assistenza sanitaria negli istituti correttivi, superando le barriere che troppo spesso lasciano isolati e affidati a sé stessi i detenuti. Questo consentirà anche l’abbattimento delle liste d’attesa, il potenziamento delle attività specialistiche all’interno del carcere e la riduzione dei costi legati agli spostamenti. Non solo: è pure un modo per sopperire all’ormai diffusa carenza di personale sanitario ma anche di polizia penitenziaria.

Non è certo il prima esempio di come la tecnologia possa supportare e migliorare il sistema sanitario nazionale, in particolare nelle realtà periferiche come le aree interne. Mamone ricade nel territorio di Onanì, un paesino di appena 352 abitanti della Sardegna centrale. Da un punto di vista geografico, il paese più vicino è quello di Bitti, mentre il capoluogo di provincia (Nuoro) dista oltre cinquanta chilometri. La struttura penitenziaria, che sta all’interno di una vasta area a 900 metri di altitudine, d’inverno non sempre è facilmente raggiungibile, soprattutto quando nevica abbondantemente.

Da sin.: Paolo Cannas, Vincenzo Lamonaca e Alessandro Spano

L’avveniristico progetto di assistenza sanitaria ai detenuti è frutto della collaborazione tra la Asl di Nuoro, la Casa di reclusione di Mamone, lo spin-off accademico Chain Factory dell’Università di Cagliari – dipartimento di Scienze economiche e aziendali, e State1, una società che lavora nel settore del metaverso che negli ultimi mesi ha sviluppato un ambiente virtuale nel quale i detenuti possono incontrare i medici in uno spazio immersivo.


«La direzione strategica aziendale dell’Asl di Nuoro da tempo ha messo in campo un’attività multimediale e digitale all’avanguardia, avviata con la telemedicina, che oggi ci consente di monitorare e seguire nel proprio domicilio 400 pazienti con scompenso cardiaco, con un conseguente abbattimento dei ricoveri impropri», sottolinea Paolo Cannas, direttore generale della Asl 3 di Nuoro, che ha seguito la prima visita accompagnato dal direttore della colonia penale, Vincenzo Lamonaca, e dal professor Alessandro Spano, docente del dipartimento di Scienze economiche e aziendali dell’ateneo cagliaritano. «Non potevamo non cogliere le importanti novità sul fronte di questa nuova tecnologia sul versante sanitario, partendo sperimentalmente con un progetto legato a pazienti di cui non sempre ci si ricorda: le persone ristrette in carcere, che, per prime in Italia, potranno beneficiare di questo strumento. Ringrazio il dottor Lamonaca, il professor Spano e tutti gli attori coinvolti in questa nuova dimensione della sanità pubblica».

Da remoto si visualizza l’ambiente virtuale per la visita medica a distanza

L’iniziativa riceve il plauso delle organizzazioni sindacali. Il segretario generale regionale della Cisl Fns, Giovanni Villa, auspica che il progetto «venga attuato anche dalle altre Asl, specialmente in quei presidi ospedalieri territoriali dove insistono istituti penitenziari che ospitano detenuti mentalmente instabili. L’amministrazione penitenziaria questa volta ha colto nel segno, condividendo questo progetto con la Asl di Nuoro, la quale si è dimostrata da subito disponibile. È per questo che riteniamo necessario che il metaverso sanitario venga esteso a tutti i penitenziari sardi: siamo convinti che ciò allieverebbe parecchio tutti i disservizi e le difficoltà che si vengono a creare ogni qualvolta si deve portare un detenuto all’esterno del carcere per una visita medica. Si andrebbero a ridurre esponenzialmente l’impiego di risorse umane e finanziarie, meno impiego di personale di polizia penitenziaria e sanitario, meno traduzioni, meno uso dei mezzi e anche meno intasamenti dei Pronto soccorso. Da quando sono stati chiusi gli ospedali psichiatrici giudiziari – Opg, circa sette anni fa, non vi sono state soluzioni adeguate a contenere questa tipologia di utenza; anzi, visto che ci lavoriamo giornalmente a contatto, possiamo certificare che in certi penitenziari si sono creati dei mini Opg ma purtroppo la mancanza di specialisti non garantisce cure adeguate continue ai detenuti mentalmente instabili, che sono la prima causa delle aggressioni che quotidianamente subiscono le donne e gli uomini del corpo di polizia penitenziaria, e non solo. Abbiamo chiesto un incontro all’assessore regionale della Sanità, Armando Bartolazzi, per discutere delle problematiche che investono la sanità penitenziaria. Speriamo che ci convochi quanto prima».

Uno scorcio della vasta tenuta agricola di Mamone (Onanì)

La maggior parte dei detenuti ospiti a Mamone proviene dall’estero o dalla penisola. Sono per lo più extracomunitari africani che non hanno possibilità di ricevere visite e aiuti dai familiari. Di loro, da una ventina d’anni, si occupa l’associazione “Icaro” di Bitti. «Questo progetto sanitario è molto importante e risponde a una serie di esigenze di varia natura», commenta Pietrina Calvisi, presidente di Icaro. «Ma quello delle visite mediche non è l’unico problema. Questi detenuti spesso arrivano a Mamone sprovvisti dell’indispensabile: indumenti, shampoo, spazzolino e dentifricio. Insomma, le cose più elementari. Sembrano sciocchezze ma così non è, soprattutto per chi non ha soldi o comunque non può contare sull’aiuto dei parenti. Accade anche per alcuni detenuti sardi che vivono distanti da Mamone, oppure che non hanno più i familiari o che con essi nel tempo hanno rotto i rapporti. Ecco, noi ci prodighiamo per aiutarli, anche grazie alla generosità dei cittadini di Bitti. Non riceviamo contributi dalla pubblica amministrazione, ci reggiamo soltanto sulle nostre forze e sulle poche donazioni del 5 per mille. A volte organizziamo una raccolta fondi, per esempio vendendo nelle feste del paese i dolci che preparano le nostre volontarie».

La presidente Calvisi precisa anche che «i detenuti di Mamone sono generalmente persone miti, ormai a fine pena. I pochi problemi nella loro gestione spesso sono causati da patologie psichiatriche che avrebbero necessità di strutture differenti. Ma li aiuta moltissimo il poter lavorare in aperta campagna, con un certo margine di libertà: sia nei terreni a ridosso della struttura centrale, sia nelle cosiddette “diramazioni” di Nortiddi, Sacra, Stalla e Nunziata, dove si occupano delle colture ortive e dell’allevamento di mucche e pecore. Poi ci sono i permessi-premio: una volta al mese o al massimo ogni due mesi, organizziamo delle uscite con quanti di loro vengono autorizzati dalla direzione penitenziaria, per consentire a queste persone di riprendere contatto con la società all’esterno, in particolare con altre associazioni di volontariato del territorio. È un modo per fare inclusione sociale e prepararli al momento in cui usciranno da Mamone».

Credits: foto dell’ufficio stampa Asl 3 di Nuoro e di Pietro Calvisi

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