“Quelles nouvelles? Che notizie?”, domanda il signore che accoglie in casa sua.
“Les nouvelles sont bonnes. Bonjour, le notizie sono buone, buongiorno”, risponde l’ospite.
Si dialoga così in Costa d’Avorio quando si visita qualcuno: sull’uscio si celebra un rito, come chissà in quante parti del mondo certo, solo che qui ha un che di rigoroso, di immancabile.
Dopo il bonjour scatta una serie di domande: “E il papà come sta?”, “Bene grazie”. “E la mamma come sta?”, “Bene grazie”, “I figli come stanno? I cugini”…
Solo una volta che è finito l’appello dei parenti e degli amici, la conversazione tocca il tema che ha mosso la visita e si arriva al punto.
Sono parole-anticamera, senza di loro l’incontro rischierebbe il flop. Costruiscono un pavimento di riconoscibilità, di fiducia reciproca, antica. Quella domanda-risposta, “Quelles nouvelles? Les nouvelle sont bonnes” ha attraversato stagioni di conflitti e di pace, e torna sulle bocche di oggi come una garanzia di autenticità.
Quelle nouvelles?"
"Bonnes, les nouvelles sont bonnes"
Per chi viene dalle parti del mondo nevrotiche, in lotta contro il tempo nello sforzo titanico di metterlo sempre a frutto, questi riti suonano in principio spiazzanti, sono percepiti come uno spreco.
Poi in corso d’opera ci si rende conto che queste parole, automatiche nel loro comporsi sempre uguale, preparano l’incontro, dilatano le maglie del tempo in modo che sia in grado di ospitare quel che si desidera raccontare, tutto, nelle sue diverse sfumature.
Si sperimenta che queste parole-rito hanno il potere di scomporre la complessità delle esistenze in moduli affrontabili più agevolmente, e diventano le governanti del tempo.
Sono piccole certezze che, collaudate da generazioni, stabilizzano l’incontro, lo assicurano contro gli imprevisti. Almeno ci provano.
Ryszard Kapuscinski, lo scrittore che ci ha portato con i suoi reportage in luoghi dell’Africa prima irraggiungibili, ha rintracciato nel modo di pensare il tempo una delle differenze principali tra l’europeo e l’africano. Per l’europeo esiste obiettivamente, al di fuori dell’uomo, misurabile e lineare. Il tempo è matematico, quindi l’uomo ne è schiavo, ne è condizionato, ci ingaggia una battaglia da quando nasce fino all’annientamento finale. Il tempo vince, l’uomo muore.
Per l’africano è una categoria elastica, soggettiva, perché è l’uomo che gli dà una forma, un ritmo. Addirittura ha il potere di crearlo: se cessiamo la nostra azione, il tempo sparisce, in quanto esso è determinato dai nostri eventi, dalle nostre azioni.
Viene in mente questa differenza nell’ascoltare il “pas de souci”, che torna come intercalare nei dialoghi ivoriani: tu parli, l’altro per dimostrarti attenzione ripete “pas de souci, nessun problema, non ti preoccupare”.
Chi ascolta rassicura il suo interlocutore. Il sotto testo è: prenditi il tempo che serve, il tempo è tuo, lo stai producendo tu ora.
Finché a un certo punto il dialogo finisce e come ci sono le parole anticamera all’inizio, così alla fine si ricorre a un’altra formula, in Europa inaudita: “Je vous demande la route, le chiedo la strada”, un modo gentile per dire che è giunta ormai l’ora di andare.
E la risposta può essere duplice: “Je vous donne la route”, cioè d'accordo, le do la strada, ora può andare.
Oppure, ed è più toccante, “Je vous donne la moitié de la route”: gliene do metà di strada, perché vorrei che lei ritornasse da me, che tornasse a trovarmi.
Che le parole siano esseri viventi con lunghe storie alle spalle, qui l’abbiamo scritto tante volte. Che esercitino un loro potere sulla trama del tempo o, più precisamente, sulla relazione irrisolta tra noi e il tempo, resta ancora da indagare.
Abbiamo bisogno di Africa anche in questo.
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