Politica

Meriam è il primo passo per un’Europa più attiva e coraggiosa

Parla Lapo Pistelli, il viceministro degli Affari Esteri che è riuscito nel capolavoro diplomatico di salvare Meriam Yehya Ibrahim, condannata a morte per apostasia in Sudan

di Lorenzo Alvaro

Fino a pochi giorni fa Lapo Pistelli era uno dei tanti che lavorano per il Governo e per l'Italia nell'ombra. Uno di quei tanti uomini chiave del Paese che non godono mai delle luci della ribalta. Ombra che si è diradata il 24 luglio scorso quando Pistelli è riuscito, con una trattativa diplomatica brillante, a salvare e portare in Italia Meriam Yehya Ibrahim. La ragazza e madre condannata a morte per apostasia in Sudan cui senza successo in tanti avevano cercato di salvare la vita, anche gli Stati Uniti. Là dove mezzo mondo aveva fallito è riuscito Lapo Pistelli che dopo mesi di lavoro sottobraccio in pochi giorni è volato a Khartoum e ha accompagnato in Italia Meriam con il marito e i due figli. Per capire questo protagonismo italiano inedito negli scenari internazionali, in particolari africani, Vita.it ha intervistato proprio Pistelli.   

 

Lapo Pistelli sbarca a Ciampino con Meriam

Il recupero di Meriam è stato per l'opinione pubblica un fulmine a ciel sereno. Il governo da quanto lavorava alla cosa?
Capisco che sarebbe facile – a successo ottenuto – ammantate l'intera operazione di un tono epico, una specie di operazione "Argo" in salsa tricolore. La realtà vera è più sobria: l'Italia aveva preso molto a cuore l'intera vicenda, con l'appello dei media e la risposta della società civile; il governo dal canto suo ha cominciato un lavoro tenace e riservato. Le direi dunque qualche mese, con una forte accelerazione nelle ultime tre settimane.

Come ha fatto a riuscire dove gli Usa avevano fallito?
Non sono tanti i Paesi europei che hanno un rapporto costante con Khartoum. Il Sudan è considerato un Paese difficile e molti preferiscono evitare di avviare dialoghi in quelle condizioni. Gli Stati Uniti sono fortemente presenti a Khartoum, con un atteggiamento che quel governo percepisce come troppo severo. C'era dunque spazio per una mediazione "terza" e dunque ci siamo proposti riservatamente agli uni e agli altri.

Quando ha capito che la vicenda si sarebbe chiusa positivamente?
Sono stato in Sudan all'inizio di luglio, nell'ambito di una missione in tutti i Paesi del Corno. Le autorità di Khartoum – nonostante io sia un semplice vice ministro – non ricevevano visite ufficiali di questo rango dall'Europa da tre anni. Noi seguiamo in quel Paese molte questioni: il dialogo di riconciliazione nazionale, la crisi in Darfur, quelle meno note nel Kordofan e nel Blue Nile. In più siamo presenti con progetti di cooperazione sanitaria, agricola e culturale. Insomma l'Italia c'è ed è apprezzata, per quello che fa e per il modo amichevole con cui si porge. In tutti i colloqui che ho avuto, ho espresso – in una parte finale e riservata – ai miei interlocutori la nostra disponibilità. Ne ho spiegato le ragioni, i modi, le opportunità positive per tutti, insomma una strategia "win win". Ho compreso, incontro dopo incontro, che la breccia era aperta positivamente, che si trattava di fare seguire il messaggio dalla nostra ottima Ambasciata e di continuare a parlare con i miei interlocutori anche dopo il ritorno. L'incontro con i diplomatici americani di laggiù e con Meriam mi ha poi confermato che il lavoro di squadra sarebbe stato apprezzato, dopo l'infelice tentativo di uscita della famiglia con documenti sudanesi arenatosi all'aeroporto. Ho seguito le fasi dei procedimenti giudiziari e le finestre di opportunità che si aprivano. Al momento opportuno, ci siamo reciprocamente mossi e la vicenda si è conclusa come sapete. Insomma, una bella dimostrazione di amicizia e di fiducia di alcune delle loro più importanti personalità verso il nostro Paese, e anche verso di me che rappresento l'Italia nelle relazioni con loro.

Matteo Renzi ha sempre e  avuto a cuore la storia di Meriam, citata anche al discorso difronte al Parlamento Europeo, perché si è preso così a cuore la vicenda?
Perché questa è una storia simbolo che testimonia al tempo stesso la forza straordinaria di una donna semplice, il tema più generale della libertà di fede, il tema specifico della presenza cristiana in un'area dell'Africa e del Medioriente dove si riducono progressivamente gli spazi e le tolleranze.

Può essere anche un segnale all'Ue? Un modo per indicare il tipo di Europa che l'Italia vorrebbe?
In qualche modo sì. L'Europa è il primo donatore globale nella cooperazione, interviene in tutte le emergenze e le catastrofi, mantiene l'Autorità Nazionale Palestinese (ad esempio). Però talvolta sembra che si nasconda, che non riesca a dare valore a ciò che fa con le risorse dei contribuenti europei. Io credo invece che i nostri cittadini apprezzerebbero una Europa più attiva e coraggiosa, anche in quei Paesi che sono troppo facilmente dipinti come difficili ma che lo resteranno a lungo se non li ingaggiamo in spirito di amicizia e con una visione di lungo periodo. Mi creda: la lista dei Paesi in cui potremmo fare di più non è breve.

Prima i bambini adottati congoloesi, poi Meriam e adesso l'annuncio di azioni per i cristiani in Iraq. Ormai è evidente che si tratta di una nuova linea di politica estera. È così e a che esigenze risponde?
Sarebbe facile dire sì ma preferisco volare più basso. La questione dei bambini adottati in Congo ma non dati alle famiglie è stata un'emergenza che abbiamo risolto, ancora parzialmente, perché altre famiglie affrontano ancora difficoltà simili. Questa vicenda e le prossime azioni per i cristiani e – più in generale – le minoranze in fuga dall'Iraq rispondono a una idea di politica estera fortemente legata al valore insopprimibile dei diritti umani, che cerchiamo di interpretare col nostro stile ma che non abbiamo inventato ieri. L'Italia è capofila da anni nella lotta contro la pena di morte alle Nazioni Unite, si spende con coraggio nella cooperazione su progetti in favore delle donne e contro le mutilazioni genitali, insomma noi ci siamo e il Paese tutto dovrebbe andarne fiero.

Ha parlato con Meriam? C'è qualcosa che l'ha colpita?
Ci ho parlato certo, sia nella prima missione che nei giorni scorsi, anche se la lingua di comunicazione è ristretta all'arabo e a un inglese elementare. È una donna semplice e forte, legatissima al marito Daniel, assai ferma col figlio Martin. La prima volta che si è sciolta davvero è quando le ho detto che Papa Francesco si era interessata a lei. Quando poi si è concretizzato l'incontro, sembrava in un sogno. Avendo partecipato, devo dire che aveva tutte le ragioni.


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