Welfare
Mercato Centrale Milano, lo specchio triste di una città che si sta perdendo
Ha aperto i battenti il nuovo polo del gusto alla Stazione Centrale: luci cangianti, resident dj che mette musica dal vivo tra fish bar, cocktail bar, fioriste-cantanti e vignaioli-showmen. Il tutto a pochi metri da uno dei luoghi simbolo del disagio e dell'esclusione cittadina: il sottopasso Mortirolo, casa per molti senza tetto e storicamente luogo d'accoglienza per i migranti
Da pochi giorni (precisamente giovedì 2 settembre) la Stazione Centrale di Milano è meta di tanti turisti e curiosi. A due passi dalla via Gluck di Celentano nel fianco sinistro della Stazione su via Sammartini ha aperto infatti Mercato Centrale Milano.
Mercato Centrale Milano
«Porterà Milano oltre 25 botteghe del gusto e la migliore offerta gastronomica del territorio locale, regionale e nazionale in oltre 4.500 metri quadrati, su due livelli con 200 metri quadrati i dehor esterni». La nuova proposta si è insediata in locali che erano fino ad oggi in disuso e si candida ad essere, spiegano sempre dal Comune di Milano «parte del più ampio piano di riqualificazione di tutta l’area urbana esterna alla Stazione che si sta sviluppando con Grandi Stazione Retail e Ferrovie dello Stato». E ancora: «Dialogo tra riqualificazione, territorio e identità che il progetto intende realizzare all'interno della nuova struttura che si inserisce nello storico edificio».
Per capire di cosa si sta parlando ci si può affidare a una bella descrizione che ne fa Mariella Tanzarella su Repubblica che scrive: «Ridà vita a spazi polverosi e obsoleti (all’ultimo piano si vedono chiaramente le arcate della massicciata che sostiene i binari: quell’area era completamente abbandonata, inutilizzata da decenni), riporta luce e pulizia in un angolo che non sembrava tanto frequentabile, anche se c’è il capolinea dei tram, anche se a due passi ci sono i ristoranti di via Fabio Filzi da un lato, il lusso dell’hotel Gallia dall’altro. Era un cono d’ombra nella Milano civile e sicura. Sono stati portati qui fior di artigiani e di rivenditori, creato una trentina di spazi individuali per panettieri, macellai, casari, pasticceri, salumieri, ma anche pizzaioli, maestri della griglia, chef specializzati nel pesce; e fioriste-cantanti, e vignaioli-showmen» e continua «è evidente che non ci si deve aspettare un mercato pop, con prezzi pop. Qui si punta alla qualità, e un po’ all’immagine».
Il contesto
Sembrerebbe proprio essere un nuovo gioiello della corona milanese questo nuovo mercato. Eppure qualcosa che non torna c'è. A lasciare perplessi non sono tanto le barriere architettoniche un po' dappertutto, che si è tentato di mitigare con un ascensore (ma che può portare una sola persona alla volta) e con le scale mobili (impraticabili da carrozzine e passeggini), né gli spazi angusti che portano inesorabilmente ad accalcare gli avventori, in periodo Covid. No, a rendere questo nuovo Eataly straniante è un'immagine.
La grafica scelta per accompagnare gli avventori strizza l'occhio al mondo dei graffiti. Si sa che le stazioni sono la patria dei writers. Solo che questi finti graffiti guardano da vicino quelli veri che si trovano proprio affianco alle entrate del Mercato.
Lì c'è l'imbocco del sottopasso Mortirolo, quel tunnel che attraversa alle spalle la stazione dove dormono clochard, senza tetto e immigrati tra le auto che sfrecciano. Sempre qui c'era il centro di accoglienza per i migranti del mediterraneo. Il disagio nell'ombra del cavalcavia, le luci cangianti e le note del dj. A due passi uno dall'altro.
Il marketing deteriore
«Il linguaggio e le etichette di questa operazione ci parlano di un marketing di qualità deteriore che usa paroloni a casaccio coprendosi di ridicolo e cercando di coprire altre aberrazioni», attacca il sociologo Marco Revelli, «È molto simile al greenwashing delle aziende. Si legittimano operazione commerciali con nobili ideali che in realtà vengono traditi».
«Devo dire sinceramente che ho sempre provato un enorme fastidio per l'occupazione degli spazi pubblici da parte delle merci», continua Revelli, «Questa intrusione massiccia, diffusa, capillare delle merci negli spazi che dovrebbero essere riservati ad utenti e viaggiatori. Si sono costruiti dei percorsi di guerra, all'interno di veri e propri labirinti, nei quali chi vuole arrivare al treno deve pagare il pedaggio di un lungo percorso di boutique, banchetti, offerte. È la logica del serpentone dell'autogrill»
Per Revelli «la stazione è lo specchio della società in cui viviamo e ne riproduce, nella sua struttura, la polarizzazione. Il confronto tra la città forte e quella fragile, contigue senza guardarsi in faccia. Una forbice completamente aperta tra il polo del lusso e il polo della miseria. Due estremi che in una società che si avvicini a un'idea di giustizia avrebbero dovuto rappresentare delle minoranze e che invece oggi sono diventati invasivi e visibilissimi. La stazione è un'autocelebrazione di un mercato esclusivo ed escludente, così com'è nello spirito del tempo. Le merci sono griffate, ci sono i grandi marchi, a rappresentare un'eccellenza esclusiva e sono sparse come pietre d'inciampo per chi non può permettersi quegli acquisti. Una società che offre, anche se a pochi, la bellezza e il lusso. Unica prerogativa: avere il denaro necessario. In fin dei conti sono dei monumenti al valore del denaro».
È la città che perde la sua funzione originaria e che la giustifica: l'abitare. «La città post moderna non è più fatta né pensata per il vivere una quotidianità domestica, amichevole e socievole. La socievolezza non è più nella cifra delle nostre città. Oggi abbiamo l'ostentazione delle immagini, il primato dell'apparire. Alcuni architetti americani parlano della città come box of speeds, scatola delle velocità, di flussi che non si incontrano, che si sfiorano ma non si vedono. In cui ciascuno va nella propria direzione. Lo stiamo vedendo materializzarsi, a Milano più che altrove», conclude Revelli.
L'espansione di Milano e la crescita delle diseguaglianze
E questa direttrice sembra essere sempre più l'orizzonte del futuro di Milano. Stando ai dati divulgati dal Comune infatti nel primo semestre del 2021, sono stati approvati 549 progetti urbanistici. Ancor più non solo dell'avvio di un 2020 segnato dal lockdown (332 da gennaio a giugno, 869 in tutto), ma dello stesso periodo del 2019 (531), l'anno record per il mercato immobiliare. Si parla di 30 miliardi di investimenti in edilizia nei prossimi anni.
Un'attività, questa, che si riflette sui cosiddetti oneri di urbanizzazione, ovvero i contributi che chi chiede un permesso di costruire deve versare al Comune. Il contatore è arrivato a superare gli 80 milioni di euro, gli stessi introiti dell'intero 2017. È un dato in linea con gli 84 milioni del 2019, quando a fine anno Palazzo Marino volò a oltre 170 milioni complessivi. Eppure, senza la legge regionale che dal 2020 ha tagliato del 22 per cento gli importi dovuti, Milano sarebbe già arrivata a 103 milioni, ben al di sopra della stagione d'oro pre-Covid.
Gli oneri di urbanizzazione per legge“sono destinati esclusivamente e senza vincoli temporali alla realizzazione e alla manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria, al risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici e nelle periferie degradate, a interventi di riuso e di rigenerazione”.
Eppure guardando la mappa della città elaborata da YouTrend, ricavata incrociando i dati sul pil pro capire con i codici postali dei milanesi, non sembrerebbe che lo strumento funzioni. A Milano abbiamo zone come quella di Brera che hanno il pil pro capite del Lussenburgo e altre come Quarto Oggiaro in cui il pil pro capite è come quello del Montenegro. Ad occhio nudo si nota come il pil si coaguli al centro e via via diminuisca verso la periferia.
Oneri di urbanizzazione sociale
«Gli oneri di urbanizzazione sono dei contributi ai servizi pubblici della città cui è tenuto chi costruisce qualcosa ex novo», sottolinea Christian Novak, docente del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, «è una logica naturalmente espansiva. Poi ci sono anche oneri su opere, come il Mercato Centrale, che invece riguardano il cambio di destinazione d'uso di un bene. Il funzionamento è complesso e ha due lacune: non c'è un obbligo di usare questi proventi per qualcosa che abbia senso in relazione con quella trasformazione e in ogni caso entrambi gli oneri sono di carattere generale e non particolare. Significa che quei soldi non necessariamente vengono spesi nella stessa zona in cui c'è stata la cantierizzazzione che gli ha generati. Servirebbe una rivoluzione e magari l'introduzione del concetto di onere di urbanizzazione sociale, cioè che gli oneri di un cantiere ricadano in quota parte anche su esigenze sociali del quartiere stesso».
Qualcosa che Novak chiarisce subito che «sarebbe un sistema complesso e di difficile gestione. Niente vieta però che si immagini di legare a ogni cantiere anche un progetto sociale da sviluppare contemporaneamente. Di certo non si può pensare di lasciare le cose come stanno».
Anche perché la situazione in zona Centrale è solo l'ultima di una mutazione che sta avvenendo in tutta la città: «Quello del Mercato Centrale è un trend che sta investendo tutti i mercati comunali della città. Delle ristrutturazioni che portano questi mercati di quartiere a diventare dedicati a persone di reddito medio alto. Qualcosa che stride con la presenza limitrofa di caseggiati popolari. Questa trasformazione in luogo da aperitivi succede in Corso 22 Marzo, in via Lorenteggio, in piazzale Lagosta e adesso QT8», sottolinea Novak.
Si parla di «interventi introversi che non sviluppano relazioni con il contesto. Anzi sottraggono spazio pubblico e lo privatizzano», conclude l'architetto.
Serve una nuova visione di città
«Il cuore del problema è che, nella Milano di due anni fa, di questo Mercato Centrale non ce ne saremmo neanche accorti», sottolinea Elena Granata, professoressa di Urbanistica e Analisi della città e del territorio al Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia Civile. «C'era una tale effervescenza e crescita che probabilmente sarebbe passato inosservato». Solo che c'è stata una pandemia «che ha impoverito ancora di più chi era già povero e ha affaticato il ceto medio». Per Granata dunque «parliamo di un progetto fuori tempo massimo, che arriva tardi ed è inadeguato. Dà l'idea dell'asincronia tra i tempi dell'impresa e del capitale e i tempi della città».
Oltre a dimostrare una evidenza: «il Mercato è l'evidenza empirica che comanda il capitale non la politica. La maggior parte di questi cantieri e progetti non è frutto di una scelta politica ma di business. Ma attenzione questo non è frutto di una debolezza della politica. È un'idea politica precisa: l'idea che in effetti sia l'economia a dover avere un primato. Che nel momento in cui le cose vanno bene può funzionare. Ma oggi l'esigenza è di più politica», sottolinea Granata.
Per Granata «se è grave che a Milano oggi la risposta ai problemi molto sociali sia molto scarsa è ancora più grave che oggi questa città non risponde più neanche all'esigenza del cittadino medio. Le famiglie, gli studenti universitari, gli anziani: quali sono le risposte per queste persone. Milano ha cambiato pelle e in due anni di pandemia ha ferite profonde di cui l'amministrazione forse non si rende conto».
In ultima analisi «sentiamo così forte il contrasto che questo progetto genera perché la giustapposizione tra il poverissimo senza risposte e l'ammiccamento verso una parte della popolazione, che pure c'è ed è visibile, come quella dell'aperitivo, che ci riporta alla mente la Milano da Bere ed è grottesca, genera una mancanza. Scompare da questo panorama la Milano dei cittadini. Non è più compresa nell'equazione».
C'è poi un'evidenza che si impone, conclude Granata: «finché la corsa della città sembrava inarrestabile e le cose andavano bene, o almeno sembravano andare bene, non abbiamo sentito la mancanza di un dibattito pubblico sui problemi della città, che è scomparso da sei anni. Quando si comincia a fare fatica e ci sono parti di città che non tengono più è capitale riprendere la parola. Il problema è che c'è un vuoto di immaginazione. Prima di sapere quali risposte dare serve capire che città abbiamo e poi immaginare che città desideriamo. Serve una nuova visione».
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