Non profit
Meno uno alla guerra
L'editoriale di Giuseppe Frangi sulla guerra che sembra doversi scatenare contro l'Iraq.
Ormai la questione non è più del ?se? ma del ?quando?: quanto manca ancora al conto alla rovescia di questa guerra fortissimamente voluta dal presidente Bush e connotata di un che di assurdo, di irreale. Infatti, man mano che il rombo dei cannoni si fa più vicino e inquietante, si fanno sempre più fumose le ragioni per le quali devono entrare in azione. Ma ci sono due aspetti sui quali vorremmo invitare tutti a discutere e a ragionare.
Primo. La guerra è diventata un formidabile strumento mediatico con cui l?amministrazione americana tiene in scacco il mondo. Da quasi un anno a questa parte, non passa settimana senza che un?invettiva del presidente non conquisti le prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Sembra una perfetta strategia di copertura informativa, che non conosce soste e, più ancora che conquistare consenso, vuole imporre alla coscienza collettiva l?America come perno del pianeta. Si crea una specie di sudditanza psicologica, di prostrazione della ragione, per cui resta impossibile sottrarsi da quel gioco imposto. Fanno sorridere i tanti che rimproverano ai no e new global di dimenticare la situazione di violazione dei diritti umani in Paesi un tempo o ancora comunisti.
Ma provate voi a imporre all?attenzione dei media la situazione da vero Medioevo di cui è ancora ostaggio la Corea del Nord o l?abuso della pena di morte in Cina e vedrete che risultati otterrete. Silenzio. Chi riprende le tante, terribili denunce che Amnesty International (per citare un?associazione della cui autorevolezza pochi possono dubitare) lancia ogni settimana? La realtà è che tra Washington e Atlanta (dove ha sede la Cnn) i carri armati dell?informazione mondiale lanciano un messaggio solo: che la minaccia del mondo è l?Islam degenerato e che la sua salvezza è la potenza di fuoco americana. Gli Stati Uniti sono indubbiamente una grande democrazia, dove, come ammette lo stesso Noam Chomsky, si gode un livello di libertà maggiore persino di quello europeo, ma il loro modo di comunicare assomiglia moltissimo a quello, manipolatore, di una dittatura. Il che, permetteteci, ci inquieta.
Seconda riflessione. Ammettiamo, per assurdo, che tutto quello che sta accadendo sia un modo con cui gli Stati Uniti nascondono in realtà la loro debolezza. O le loro paure. L?isolazionismo infatti non è sintomo di forza, e gli Usa, in questo frangente storico sono isolazionisti al punto da non riuscire a star dentro la pur debole autorità dell?Onu. Non è un caso che, Difesa a parte, nel 2002 il ministero con maggior badget e maggior numero di dipendenti sia quello della Sicurezza: ben 170mila funzionari con un badget di 35,5 miliardi di dollari. Ma ci sono altri sintomi che fanno pensare a un gigante che sente franare il terreno sotto i propri piedi. Tanta febbrile attenzione sull?Iraq, come ha ben spiegato Jeremy Rifkin, evidenzia soprattutto un sistema che brucia quantità colossali di energia e che vive con il cappio al collo della risorsa petrolifera. Il 2002 si chiuderà con un record: sono oltre 700 gli amministratori delegati di società quotate in Borsa licenziati. Lo sgretolarsi dell?illusorio sogno della new economy ha lasciato segni profondi, dalle ricadute sociali drammatiche. Grandi fondi pensioni hanno visto andare in fumo gran parte dei propri patrimoni (oggi la General Motors paga i propri pensionati con i contributi versati dai dipendenti), Stati come la California si trovano con entrate fiscali drasticamente ridotte e hanno annunciato tagli ai costi sociali (dal 1° gennaio verrà sospeso il sussidio a un milione di disoccupati). Drammatico che ora Bush proponga a quest?America di spendere 200 miliardi di dollari per la guerra più annunciata del mondo.
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