Economia

Meno ospedale, più comunità

Welfare sanitario /1. Invecchiamento, cronicizzazione. Servono risposte organizzative nuove nel campo della cooperazione sociale. Che però ha bisogno di enti pubblici capaci di progettare

di Maurizio Regosa

Nella società sempre più liquida in cui cerchiamo di non annegare, sono due i fenomeni sociali che maggiormente rendono inquieti gli osservatori. Si chiamano invecchiamento della popolazione e miglioramento delle cure. Ovvero longevità e cronicizzazione: entrambe hanno significative ripercussioni sulla teoria e la pratica dei servizi alla persona e vagano in quel terreno a tratti paludoso che siamo soliti definire ?socio-sanitario?.

Attualmente gli oltre 65enni sono 11 milioni 379mila (il 19,46% degli italiani). Hanno una speranza di vita molto più elevata delle generazioni precedenti. Non solo: grazie a più attenti stili di vita, a condizioni generali più benigne, alle scoperte mediche, le loro malattie si sono evolute, si sono appunto cronicizzate. E richiedono interventi diversi da quelli tradizionali ma soprattutto protratti negli anni.

Una spesa alle stelle?
Vivere meglio e più a lungo fa naturalmente piacere a tutti. C?è però un ?ma?: siamo disposti a pagare molte più tasse per sostenere l?incremento delle risorse? Non si scappa: da questo punto di vista cronicità finisce inevitabilmente con il voler dire maggiori spese. Ma, in tempi in cui tutti (o quasi) sembrano essersi dimenticati che ?tasse? significa ?contributo?, non pare che tale disponibilità ci sia. D?altra parte le condizioni economiche del Paese, grazie a queste settimane di discussione sulla Finanziaria, sono più che note: è ipotizzabile un incremento significativo della spesa socio-sanitaria?
Per quanto il new deal del ministro Livia Turco sottolinei la necessità di tornare a investire in questo ambito, pare impensabile incrementare all?infinito la spesa. Lo Stato già fatica (e non poco) a stanziare risorse per un ragionevole Fondo per la non autosufficienza?

Forse però il problema non si riduce ai soli investimenti. È proprio di questi giorni il Rapporto Ocse su Salute e sanità a confronto, dal quale emergono alcune sorprese. Numeri alla mano, l?Ocse sfata il mito di un?Italia sprecona e incapace di assicurare una sanità efficace: la spesa del Belpaese (2.258 dollari procapite) è inferiore alla media europea (2.934), mentre il tasso di mortalità italiano (534 decessi l?anno per 100mila abitanti) è più basso di Paesi che dedicano più risorse (Spagna, Francia, Germania ad esempio).

Ma se spendiamo poco (e comunque sempre di più: dagli 81 miliardi di euro nel 2002 siamo passati a 96,5 miliardi del 2005), altre ricerche – fra cui quella pure recentissima del Censis – dimostrano che il livello di fiducia e di soddisfazione è piuttosto basso.

E si sa che soddisfazione e consapevolezza dei propri diritti vanno di pari passo. Lo ha raccontato assai bene l?Audit civico 2005-06 presentato dal Tribunale per i diritti del malato e Cittadinanzattiva, che parla di un sistema frammentato, poco comprensibile, in cui non sempre c?è uno spazio adeguato per il coinvolgimento delle organizzazioni dei cittadini.

Riassumendo: anche se non è così vero che la sanità è un buco nero in cui finiscono il denaro pubblico e la salute dei cittadini, i bisogni e le aspettative non sono soddisfatti.

Nuove risposte
Serve forse di più dare ascolto agli studiosi che concordemente mettono sull?avviso: il Ssn è progettato per le fasi acute, non per occuparsi della cronicità; degli ospedali si sta facendo un uso ormai improprio; è tempo di individuare nuove risposte organizzative. «Ci sono servizi in cui prevale una componente socio-assistenziale e relazionale. È questo il settore in cui si gioca l?innovazione delle politiche di welfare», precisa Gian Paolo Barbetta, docente di Politica economica alla Cattolica di Milano, che aggiunge: «La tendenza dovrebbe essere quella di tenere, finché è possibile, le persone dentro il territorio dove dovrebbero trovare servizi adeguati». Insomma non tutta l?assistenza è sanitaria né deve essere fatta negli ospedali.

Su questa impostazione anche organizzativa si è innestato il contributo essenziale della cooperazione sociale, il cui valore aggiunto è storicamente stato quello di proporre, spesso in virtù di analisi dei nuovi bisogni e grazie a una cultura imprenditoriale flessibile, nuove tipologie di servizi, realizzati poi in regime di convenzionamento o di accreditamento. In un?ottica di sana e corretta integrazione fra sociale e sanitario.

Integrare per crescere
Integrare culture organizzative diverse non è semplicissimo. Sono sempre possibili derive di pura esternalizzazione. Non a caso, il Censis nel suo ultimo rapporto propone, in tema di welfare, di «ripartire dalla governance», ridefinendo meccanismi realmente efficaci grazie ai quali ciascuno possa svolgere il suo ruolo. In libertà e trasparenza. «Lo Stato deve creare condizioni che non ostacolino lo sviluppo di soggetti della società civile e il loro contributo», puntualizza Barbetta, «ma è chiaro che spetta al pubblico l?indirizzo, il coordinamento e il controllo».

Ma perché sia realizzata un?integrazione virtuosa, occorre che i soggetti coinvolti facciano la loro parte. Il che per gli enti locali, secondo Elio Borgonovi, professore di Economia delle amministrazioni pubbliche alla Bocconi, significa che «devono imparare a elaborare strategie di lungo periodo con le quali coinvolgere quelle cooperative sociali professionalizzate. È una scelta da non fare in condizioni di urgenza, magari sotto la pressione di un vincolo di bilancio, anche perché implica un?evoluzione dei modelli organizzativi della funzione pubblica».

Dal canto loro anche le cooperative hanno una grande responsabilità: «Il valore aggiunto della cooperazione», spiega Alberto Leoni, presidente del consorzio Comunità solidali del gruppo Cgm, «è senza dubbio la capacità innovativa, la forza progettuale. Non ci si deve mettere nell?ottica di ?vendere? un servizio, ma di progettarlo e proporlo. Mirato e su misura. Tenendo conto che non c?è innovazione vera senza rete».

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