Politica

Meloni, la grottesca strumentalizzazione del Manifesto di Ventotene

Il presidente del Movimento europeo Pier Virgilio Dastoli critica le parole della presidente del Consiglio e ironizza: «Un errore storico e culturale, non so nemmeno se l’abbia letto tutto…». Sul riarmo europeo boccia la Commissione Ue: «La via indicata da von der Leyen è sbagliata»

di Francesco Crippa

«Un errore storico e culturale». Pier Virgilio Dastoli, presidente del Movimento europeo, non usa mezzi termini per commentare il discorso con cui Giorgia Meloni ha bistrattato il Manifesto di Ventotene. Parlando alla Camera, la presidente del Consiglio ha attaccato chi crede nel federalismo europeo criticando il testo su cui questo si fonda. Le parti che ha citato, però, non sono quelle in cui si fa riferimento a una particolare idea di Europa, ma quelle in cui si parla di rivoluzione socialista e abolizione della proprietà privata. Che, per intenderci, sono quelle la cui valenza si è persa nel tempo: a distanza di oltre ottant’anni, nessuno pensa di costruire l’Europa su quelle basi.

Il Manifesto di Ventotene, che trae il nome dall’isola su cui è stato concepito, è stato scritto a mano nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, trovatisi insieme a scontare la pena del confino comminatagli dal regime fascista in virtù delle loro posizioni politiche. Concepito da menti diverse per formazione e orientamento – comunista Spinelli, azionista Rossi, socialista Colorni – si tratta di un testo fondamentale per la storia dell’integrazione europea. Il punto cardine è l’idea di un’Europa federale, dotata di Governo e Parlamento propri e anche di un esercito comune. 

Per i tre autori, questo obiettivo era raggiungibile solo attraverso una rivoluzione che fosse anche violenta. Il valore storico del Manifesto, però, non sta nella sua interpretazione letterale, ma appunto nell’idea – rivoluzionaria per il tempo – di un’Europa unita e non divisa in tante nazioni. Lo sa bene Dastoli, che da presidente del Movimento europeo ne è gran conoscitore. Il Movimento, infatti, è un’organizzazione nata nel 1948 che mira a riunire tutte quelle forze politiche che puntavano a raggiungere un’integrazione europea così come intesa nel testo scritto da Spinelli, Rossi e Colorni. «Il concetto principale del Manifesto è quello di costruzione di un sistema in grado di garantire una democrazia solida e durevole». Il resto è, per così dire, accessorio. «Per capirlo bene, bisogna inquadrarlo nel momento preciso della sua pubblicazione», cioè il 1941, quando l’Europa era occupata dalle armate nazifasciste e dall’Unione sovietica. Un periodo «buio» in cui non era possibile «avere un approccio moderato. Dire ‘fare un’Europa democratica’ voleva dire fare la rivoluzione, che doveva essere per forza armata». Ma, sottolinea Dastoli, «si tratta di considerazioni figlie di quella situazione, anzi lo stesso Spinelli ha poi cambiato posizione e si è battuto per un processo costituente».

Insomma, quella di Meloni è stata una strumentalizzazione in piena regola. «Non so nemmeno se l’abbia letto tutto…», dice, tra il serio e l’ironico, Dastoli, che tra l’altro è stato assistente parlamentare di Spinelli dal 1977 fino alla morte di questi nel 1986. «Non è la prima volta che cita quelle parti, che lei usa per dimostrare che l’Europa immaginata da Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni fosse antidemocratica ed elitaria, ma è smentita dai fatti, perché lo stesso Spinelli è stato espulso dal Partito comunista perché voleva battersi per la libertà e la democrazia e perché aveva criticato Stalin».

Secondo Dastoli, in ogni caso, si tratta di una presa di posizione che «non stupisce», per due motivi. Il primo è proprio perché si sta parlando di una «idea grottesca» rispetto al Manifesto che circola negli ambienti culturali vicini a Meloni da diverso tempo. Il secondo, invece, è direttamente legato al passato della presidente del Consiglio. «È cresciuta abbeverandosi alla fonte di Giorgio Almirante, mentre la fiammella del Movimento sociale italiano è ancora nel logo di Fratelli d’Italia», commenta Dastoli. «E poi, non parla mai di Paese, di Stato o di Italia, ma solo di nazione. La sua è una cultura nazionalista, quindi è evidente che la sua idea di Europa non corrisponda a quella del Manifesto e nemmeno a quella di Alcide De Gasperi e Jean Monnet».

Ma più che le parole di Meloni – grazie alle quali, tra l’altro, «il Manifesto era su tutti i giornali e su tutte le tv, quindi magari da ora sarà conosciuto di più e meglio» – il problema vero è «capire in che direzione va l’Europa, se verso quella delle nazioni o verso quella indicata da Spinelli, Rossi e Colorni». In questo senso, alcuni passi in avanti sulla strada di un federalismo che superi le divisioni sono stati fatti: «Ci sono degli elementi positivi, come la moneta comune, il Parlamento, la Corte di giustizia», concede Dastoli, «ma non basta».

Oggi, la parola all’ordine del giorno è riarmo. Per alcuni, sarà un modo di dare un nuovo impulso al processo di integrazione comunitaria. Dastoli non è d’accordo. «La via indicata da Ursula von der Leyen è sbagliata, perché aumentare la spesa nazionale per potenziare gli eserciti dei singoli Stati non significa costruire una difesa comune, obiettivo che invece il Manifesto si proponeva di raggiungere con la creazione di un esercito europeo». C’è chi dice che quello lanciato dalla presidente della Commissione è, almeno, un primo passo. «Lo è – risponde Dastoli – ma nella direzione sbagliata. Bisognerebbe investire laddove non si è autonomi, per esempio intelligence, sistemi antimissili, scudo spaziale. E poi bisognerebbe creare un comando unificato e un’accademia europea per gli ufficiali. Questa è la difesa comune, non il potenziamento delle industrie nazionali».

Foto Roberto Monaldo/LaPresse

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