Altro che exit col venture capitalist o con la mega corporation. Le startup innovative italiane (e i loro incubatori) hanno capito la lezione e stanno in fretta riconvertendo il modello di accompagnamento. Ora a farla da padrone è la cara, vecchia partnership con le PMI. Una collaborazione in forma di filiera che mescola e mette a valore il talento locale e l’innovazione (tecnologica e delle ICT in particolare). Una ricetta che va per la per la maggiore con l’obiettivo di rigenerare il made in Italy, soprattutto manifatturiero e artigianale.
E in campo sociale? In effetti la stessa formula potrebbe essere riproposta, anche se in un contesto decisamente diverso. Qui la sfida non è tanto la globalizzazione dei mercati e delle reti di vendita. Ma c’è pur sempre di mezzo la sostenibilità di un modello di (social) business tradizionale sfidato da uno emergente. Il primo modello è quello incarnato dal nonprofit e dalla cooperazione sociale che dopo un tretennio circa di “età dell’oro” si trova a vivere una crisi di maturità per effetto dei tagli ai budget degli enti pubblici (il principale finanziatore), ma più in generale per la difficoltà a rimettere a fuoco nuovi bisogni organizzandoli in una domanda di servizi solvibile senza poter contare sui collanti tradizionali (i corpi intermedi e le comunità naturali). Il secondo modello è rappresentato da nuove startup d’impresa che non nascono nel classico milieu volontaristico, ma che comunque si dotano di una missione sociale anche se non sempre esplicita. Sono queste le autentiche “startup a vocazione sociale” (non quelle della normativa, su molte delle quali va stesso un lungo velo pietoso).
Che succede quando queste due genie di impresa “sociale” si incontrano e provano a collaborare (anzi meglio a co-operare)? Un caso interessante è quello di Volver, una startup del riciclo creativo (upcycling) che – anche per colpa mia – si è messa in testa di costruire una filiera di produzione di oggettistica coinvolgendo i laboratori artigianali di alcune cooperative sociali. Una innovazione che – sulla carta – è win win: Volver si costruisce una filiera di produzione localizzata e a forte valore aggiunto sociale, mentre le cooperative sociali hanno la possibilità di qualificare i loro processi produttivi attingendo alla creatività della startup.
A tirare il processo c’è Melina, anima di Volver. Da buona startupper ha immesso, se non velocità, certamente il suo dinamismo assumendo un ruolo – interessante e insieme complicato – di snodo (hub) di un micro distretto sociale. E’ intervenuta nella produzione, proponendo nuovi prodotti che hanno sfidato il sancta sanctorum del servizio socio occupazionale delle cooperative. Ha pure messo le mani nelle reti di vendita contribuendo a rigenerare un negozio dove ora le cooperative e Volver vendono i loro prodotti. Insomma un caso di innovazione per “infusione di pratiche” che “rischia” di andare oltre la collaborazione occasionale e di contribuire ad accelerare il processo di trasformazione del modello di business delle imprese sociali e insieme di favorire il take off di Volver dopo la fase di incubazione.
Verrebbe da dire: “staremo a vedere” o peggio “se son rose…”. In realtà processi di contaminazione positiva di questo tipo andrebbero, da ogni punto di vista, incentivati.
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