Sono a cena con il direttore marketing dell’azienda leader mondiale di mercato nella produzione di gelato. È un amico, abbiamo fatto insieme l’università. Mi dice: «Voi del non profit siete fortunati. Non avete limiti di prezzo. Noi sì».
Ecco, viene da pensare, è il solito marketing man che non conosce il non profit e la spara grossa. Poi continua: «Chiedere soldi in nome di una causa sociale rappresenta il sogno di ciò che un uomo di marketing vorrebbe fare», continua. «Quando noi lanciamo dei nuovi prodotti, sappiamo che per quanto di successo possano essere, avranno sempre un limite di prezzo oltre il quale non sarà possibile vendere. Un prezzo soglia al di là del quale non esistono più numeri, più consumi. Un prezzo oltre il quale c’è solo il nulla. Anche la Nutella, persino il Mocio Vileda con il suo 80% di quota di mercato non riuscirebbe a vendere nulla sopra i 18,50 euro. Persino i beni di lusso più sfrenati, quelli per cui sembrerebbe non esserci un limite massimo hanno un prezzo soglia, perché alla Ferrari ci sarà sempre una Porsche come valida alternativa, ma voi nel non profit siete fortunati: non avete limite di prezzo nella causa». E continua: «C’è forse un limite intrinseco nella donazione di fondi alla Croce Rossa? C’è forse un limite di denaro massimo che la Fondazione Veronesi può chiedere per i propri progetti di ricerca in oncologia? La cura del cancro ha un prezzo massimo oltre il quale un fundraiser non si possa spingere?». Sì, gli rispondo, nella pratica probabilmente c’è.
Personalmente non posso donare oltre il 2% del mio reddito alla Casa della Carità di Milano, dove ogni giorno sono accolte persone meno fortunate di me, per ragioni di bilancio familiare (3 figli e moglie), ma in effetti vorrei donare molto di più. Nel profit c’è un prezzo limite, nel non profit no! Ecco perché “vendere” una causa è il sogno di ogni uomo di marketing: è vendere un prodotto senza limiti di prezzo. Ce ne rendiamo conto di quanto siamo fortunati?
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