Welfare

Meglio restare in comunità che avere una famiglia non polacca?

Marco Griffini, presidente di AiBi, commenta la decisione della Polonia di restringere le adozioni internazionali e rilancia l'adozione europea. «E il diritto a crescere in una famiglia? Serve una sussidiarietà verso i minori europei abbandonati che identifichi nelle ‘famiglie europee’ il luogo privilegiato per farli crescere, con la creazione di una Commissione per le Adozioni Internazionali europea»

di Redazione

La Polonia ha deciso di restringere le adozioni internazionali. Così la Polonia si avvia forse tristemente ad essere il secondo Paese europeo a chiudere le adozioni internazionali, dopo la Romania, che fece questa scelta nel 2005. Una decisione che qui fu mitigata a partire dal 2013, dopo l’entrata in vigore della Legge 233/2011: le adozioni internazionali sono state parzialmente riaperte, solo per le coppie rumene che vivono all’estero o laddove almeno uno dei due coniugi sia cittadino della Romania.

La decisone presa dalle autorità polacche desta l'amaro in bocca, scrive AiBi e apre un grande interrogativo sullo stato di diritto della “nuova Europa” e sulle strategie comunitarie di protezione dell’infanzia. Nel comunicato della Cai si legge che «il Governo della Repubblica di Polonia ha deciso di restringere le adozioni internazionali, dando priorità alle adozioni nazionali nella convinzione di trovare in Polonia delle famiglie adottive disponibili o un ambiente familiare sostitutivo» ma, commenta Marco Griffini, presidente di AiBi, «stupisce che solo ora le autorità polacche si pongano il problema della priorità delle adozioni nazionali rispetto alle internazionali, come se finora i minori adottabili sul canale dell’adozione internazionale non fossero stati segnalati per un periodo di tempo definito nella lista di attesa per l’adozione nazionale. Difficile a crederci. Ci sembra piuttosto che questa "uscita" del Governo polacco sia del tutto pretestuosa e in realtà nasconda altro».

Ma ciò che rammarica ancora di più è l'affermazione secondo cui le autorità polacche, qualora non trovassero famiglie nazionali disponibili all'adozione, preferiscano lasciare i loro minori abbandonati in «un ambiente familiare sostitutivo», cioè in una casa famiglia o in una comunità educativa piuttosto che in una famiglia, per quanto non polacca. «E tutto ciò "alla faccia" non solo del diritto di ogni bambino abbandonato a vivere in una famiglia, ma anche di tutti i proclami su una prospettiva di una “nuova Europa” di “cittadini europei” senza più confini nazionali e barriere culturali», sottolinea AiBi.

L’Italia e l’Europa dunque «quale posizione intendono assumere per far sì che sia pienamente tutelato il diritto di questi minori ad una famiglia? In qualsiasi Paese del mondo, e a maggior ragione in una “nuova Europa di diritto”, il minore abbandonato, proprio in virtù della sua assoluta e totale fragilità sociale, dovrebbe essere posto in cima alla scala dei diritti, fra i quali il più importante è il diritto di vivere e crescere in una famiglia». Continua Griffini: «il dibattito sul futuro delle generazioni del nostro continente non può prescindere dall’inserimento dei temi della protezione dell’infanzia e dell’emergenza dell’abbandono minorile tra le priorità politiche. Urge una raccolta dati strutturata e completa sui minorenni fuori famiglia in Europa per un’ armonizzazione delle discipline nazionali sulla protezione dell’infanzia e l’applicazione di una sussidiarietà verso i minori europei abbandonati che identifichi nelle ‘famiglie europee’ il luogo privilegiato per farli crescere, certamente preferibile alla collocazione in istituti o in famiglie non residenti in Europa. Il tutto potrebbe diventare operativo grazie alla creazione di una sorta di ‘super-Commissione per le Adozioni Internazionali’ europea, quale istituzione di riferimento e di garanzia per le adozioni nel Vecchio Continente». Dal 2006 Amici dei Bambini sostiene la necessità di realizzare l’adozione europea e riconoscere la mancanza di una famiglia come “abuso istituzionale” e quindi “il diritto negato del minore alla famiglia” come una violazione del diritto fondamentale della persona.

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