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Meglio gioventù cercasi

Le nuove generazioni viste dal filosofo Pietro Barcellona

di Marco Dotti

«Non c’è solo la solitudine della folla di Duisburg. Ci sono vite cariche di energia, in cerca di spazi per scambiarsi opinioni e farsi domande. Se qualcosa nascerà, sarà da loro» «Non si può comprare a nessun prezzo la gioia di essere vivi dopo una notte di tempestosa trasvolata nel cielo». Pietro Barcellona è chiaro, in apertura del suo ultimo lavoro, Elogio del discorso inutile (Dedalo, Bari, 2010), presentato a fine agosto al Meeting di Rimini.
Chiaro e deciso lo è anche quando afferma che ciò che è “senza prezzo”, a fronte di una diffusa cultura del «guadagno a ogni costo», è l’unico «valore dei rapporti fra l’io e il mondo, fra sé e l’altro, che non si può ridurre a valore di scambio e che non è calcolabile con criteri di misura utilitaristici». Filosofo, già membro del Consiglio superiore della magistratura e deputato nelle file del Partito comunista italiano, Barcellona guarda al mondo giovanile con preoccupazione, ma anche con inesausta speranza. Sotto la coltre delle chiacchiere, tra le pieghe di una crisi che pare non lasciar loro alcuna speranza, Barcellona ricorda che «ci sono giovani vite cariche di un’energia diversa, portatrici sane di presente, di umanità, vita, progetto, mai vittime di un’adesione passiva». È da loro, conclude, che se qualcosa può nascere, nascerà. Ma in forme e modi per molti versi imprevisti.

Vita: I giovani sono costantemente al centro di un dibattito pubblico che, però, li prevede come soggetto mai attivo del discorso che li riguarda. Lei che cosa ne pensa?
Pietro Barcellona: Le forme della partecipazione sono cambiate e i ragazzi sono in cerca di spazi in cui potersi scambiare opinioni, discutere, sentire – con il sorriso e la speranza che non devono mai mancare – una sana nostalgia del futuro e un’altrettanto sana voglia di presente. Al contrario, avete mai assistito a una riunione di ragazzi che fanno politica “tradizionale”, di qualsiasi schieramento essi siano? Ne avete mai osservati i volti? Sono tristi, danno la sensazione di un’assenza assoluta di linguaggio: usano una specie di lessico conformistico ripetuto quasi fosse una litania, ma senza alcun vero coinvolgimento emotivo. Io sono stato sempre persuaso che l’esperienza delle persone non può essere mai soltanto astratta e concettuale: è sempre un’esperienza che si può e si deve trascrivere in un vissuto e coinvolge una parte affettiva. È su questa parte che dobbiamo lavorare.
Vita: Ma anche la naturale “affettività” dei giovani è tenuta in scacco da un sistema puramente retorico che non ne prevede mai, se non in forme deviate o caricaturali, il passaggio all’atto?
Barcellona: Dopo la fine della prima Repubblica abbiamo molta meno libertà di prima. Rispetto al mondo bipolare, che aveva certo tutte le sue distorsioni, si sono create logiche settarie così rigide che – pur avendo attraversato il cosiddetto secolo breve ? non avevo mai visto. Dal punto di vista della partecipazione, non meno che in quello della libertà di stampa, la “Seconda” Repubblica è miseramente naufragata e non certo per colpa di Berlusconi. È naufragata per colpa dei giornali e dei mercanti di opinioni. Gli stessi che un giorno gridano «al lupo!», il giorno dopo si divorano la preda, innalzando l’uno e ostracizzando l’altro, in un vertiginoso moltiplicarsi di partiti. Oggi va di moda la parola “casta”. Ma la carica morale, e vagamente moralistica, della parola sembra valere solo quando è pronunciata nei confronti della politica. E i giornali? Non sono forse una “casta”? E i professori universitari? E i critici di professione? E i magistrati? Non sono forse caste? L’acqua è stagnante, ma l’aria non lo è di meno. Le conoscenze devono essere accompagnate da una circolazione di affetti, ma se questa circolazione non c’è, è apparente anche lo stare assieme.
Vita: Eppure assistiamo a forme nuove dello stare assieme, tentativi di ristabilire quello che il sociologo francese Michel Maffesoli chiama il “ritorno del dionisiaco”…
Barcellona: Questo è il segno di una solitudine diffusa in un’Europa che muore. C’è una specie di grumo profondo con cui non si vuole avere contatto e che non permette di elaborare alcunché, neppure quando si è confusi tra migliaia di persone. La solitudine diventa quindi una specie di buco nero di insensatezza. Non è un caso che i ragazzi intervistati dopo la tragedia della Love Parade, di Duisburg, lo scorso agosto, dichiarino di avere ingurgitato ogni sorta di alcolico e ogni tipo di pastiglia. Perché è chiaro che stanno cercando una specie di shock, per uscire dal loro sfondo di insensatezza o, quanto meno, per illudersi di allontanarsene per un po’, al termine di un’orgia che non si può affatto definire dionisiaca. Questa è una inclinazione mortifera, poiché l’annichilimento porta necessariamente un messaggio di morte e scomparsa del sé. Noi abbiamo bisogno di forme che ci mettano in scena. Senza la delimitazione della forma siamo in balìa di una specie di navigazione nel nulla.
Vita: I ragazzi di Duisburg sembrano incapaci di vivere e rappresentare la contraddizione, preferiscono dunque navigare nel nulla?
Barcellona: Esattamente. Non si interrogano, negano la domanda e non sanno più vivere la contraddizione. Le contraddizioni devono essere trasformate, non annullate. In un momento in cui tutti vogliono una soluzione rapida e possibilmente indolore, la soluzione fa abortire il problema, perché si riduce a una questione pratica, “utile” appunto. I discorsi trasformativi sono invece discorsi inutili. La domanda sul senso è sempre stata la domanda centrale, che ha a che vedere con il nostro orizzonte di vita ma anche con la nostra “felicità”, è la grande questione elusa, anche grazie alla confusione oramai imperante tra informazione e comunicazione, tra apatia e affettività.
Vita: Dovremmo dunque recuperare la carica portata da certe interrogazioni “inutili”?
Barcellona: Se nella società accentuiamo l’elemento utilitaristico, accentuiamo anche l’elemento possessivo: ossia che ognuno si soddisfa sulla base di ciò che può disporre per soddisfare il proprio desiderio. Assistiamo quindi al paradosso di una società apparentemente omologata e unificata che, al proprio interno, è lacerata da un conflitto permanente in cui non c’è alcuna comunità, alcuna appartenenza religiosa, alcuna appartenenza politica. È la situazione estrema di una società che ha subìto un pesante processo di omologazione e, proprio perché l’ha subìto in maniera così pesante, ha perso tutti gli statuti differenziali degli esseri umani. Questa situazione di conflittualità elementare e omologazione totalizzante può accrescere momenti di sofferenza e di dolore acuto.
Vita: Lei mantiene una speranza?
Barcellona: Più d’una. Senza speranza non si vive, ma anche qui non faccio retorica. Vede, le analisi sono sempre inadeguate al mondo, anche la mia e proprio nel cuore di questa logica è possibile sorga una logica “diversa”, quella del bisogno dell’amore. Perché al di là della retorica, questa è una società in cui l’amore, al di là di tutte le retoriche sull’altro e sul riconoscimento, non riesce neppure a essere percepito come stato d’animo alternativo rispetto all’odio, all’inimicizia, al risentimento o al tradimento. E mentre stiamo analizzando le forme del nostro sfacelo, qualcosa si sta muovendo, in direzioni inedite, molecolari, disperse e diffuse. Se qualcosa nascerà, sarà dai giovani e da ciò che i greci chiamavano “paideia”, matrice e leva di ogni vera rivoluzione. La vita è così, sfiorisce e rifiorisce, si cela e rinasce. Proprio là dove non te lo aspetti. Come l’erba che, ostinata, buca anche l’asfalto più scuro.


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