Unione Europea
Medio Oriente: l’Europa è “player” o “payer”?
"Player" o "payer" sono due termini inglesi spesso utilizzati con un gioco di parole dagli esperti di geopolitica per valutare il ruolo dell'Unione europea sulla scena internazionale. Quello di "attore" o di semplice "pagatore". Siamo il più importante donatore di aiuti in Medio Oriente, al netto di quelli militari ma l'iniziativa politica è sempre residuale. Per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese negli ultimi vent'anni l'Ue non ha mai svolto un ruolo di primo piano accontentandosi di quello del comprimario
“Player” o “payer” sono due termini inglesi spesso utilizzati con un gioco di parole dagli esperti di geopolitica per valutare il ruolo dell’Unione europea sulla scena internazionale. Quello di “attore” o di semplice “pagatore” sono figure distinte che stridono e, a volte, si contrappongono per chi ambisce a recitare un ruolo da protagonista a livello globale. “Siamo il più importante donatore di aiuti in Medio Oriente, al netto di quelli militari”, hanno sempre sostenuto gli europei, “vogliamo contare di più”. In realtà per quanto riguarda il conflitto israelo-palestinese negli ultimi vent’anni l’Ue non ha mai svolto un ruolo di primo piano accontentandosi, obtorto collo, di quello del comprimario. I governi israeliani, indipendentemente dalla coalizione di maggioranza, non hanno mai accettato che l’Europa prendesse le redini del processo di pace guardando con sospetto ai flirt inconcludenti fra Bruxelles e i paesi arabi.
Per Israele l’unico “honest broker”, il mediatore imparziale, come si dice in gergo, è quello americano le cui posizioni, più di una volta, non hanno coinciso con quelle europee. Basti pensare alla decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale dello stato ebraico o al riconoscimento dell’annessione israeliana delle alture del Golan. Josep Borrell, l’Alto Rappresentante per la Politica Estera e Sicurezza Comune, non perde occasione di condannare l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania riaffermando la soluzione dei due stati come unica opzione pur sapendo che, in tutta evidenza, è ormai divenuta impraticabile.
Se una critica va mossa alla diplomazia europea è quella di non avere saputo riportare al centro dell’agenda internazionale la questione palestinese. Anche l’ultimo tentativo, peraltro ignorato dai media italiani, fatto congiuntamente in settembre, ai margini dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con il lancio dello “Sforzo del Giorno della Pace per il Medio Oriente” da Ue, Lega Araba, Arabia Saudita, Egitto e Giordania è andato a vuoto. Tutti sapevano che la situazione a Gaza e in Cisgiordania era una bomba ad orologeria sul punto di esplodere ma tutti hanno fatto finta di non vedere assecondando la spregiudicatezza di Netanyahu che non ha mai fatto mistero di essere contro la creazione di uno stato palestinese.
Il primo ministro israeliano più a lungo al potere si è preso gioco della diplomazia europea e la diplomazia europea ha accettato di buon grado di essere presa in giro anche perché, senza il supporto convinto di quella araba, è impossibile rimettere sui binari il treno del processo di pace. La truculenta aggressione di civili inermi da parte dei miliziani di Hamas è una prova ulteriore che non c’è limite alla ferocia umana ma ha ottenuto, purtroppo, l’obiettivo di infiammare il mondo arabo mostrando la distanza che separa le piazze dai palazzi del potere.
L’accordo di normalizzazione delle relazioni fra Israele e Arabia Saudita, il paese che custodisce i luoghi più sacri della religione islamica, aspettava solo la firma delle parti. Una volta concluso, per i palestinesi avrebbe sancito la fine di ogni rivendicazione. Voci ufficiose da Riyad fanno sapere che l’accordo è solo posticipato ma, di fatto, sarà impossibile non tenere conto degli sviluppi del conflitto in corso, qualsiasi essi saranno. Si aprirà, probabilmente, una nuova stagione di negoziati fra Tel Aviv e l’Autorità Nazionale Palestinese ma è lecito e logico chiedersi, e a questo riguardo anche gli europei dovrebbero recitare il mea culpa, se non era meglio farlo prima senza subire il ricatto del terrorismo.
Nel 2009 mi trovavo a Gaza pochi mesi dopo la conclusione dell’operazione “Piombo fuso” da parte dell’esercito israeliano. Non ricordo di avere mai visitato un luogo più inospitale di quella sottile striscia di terra dove vivono accalcate più di due milioni di persone in emergenza umanitaria permanente. La metà di queste ha meno di 18 anni ed è condannata ad un futuro senza scampo in una gabbia a cielo aperto. Provare per credere se qualcuno è ancora in grado di ottenere un permesso di accesso da parte delle autorità israeliane che ormai non consentono più l’ingresso nemmeno ai membri del Parlamento europeo. Dall’emergenza alla catastrofe il passo è breve.
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