Salute

Medici, il prendere cura è una scienza

La pratica clinica in questi anni ha perso peso e importanza, spinta ai margini da figure come i medici manager. Luigi Tesio, fisiatra all’Auxologico di Milano, ha preso carta e penna per scrivere un libro che farà ragionare e discutere

di Giuseppe Frangi

«La medicina clinica, basata sul rapporto individuale medico-paziente è in crisi. È schiacciata fra biomedicina (che si occupa di parti della persona: organi, cellule, molecole) e sanità (che si occupa di popolazioni nella quali le persone sono unità anonime)». Non sono soltanto i pazienti, il pubblico generico o i giornalisti a constatarlo ed affermarlo, ma anche chi ci lavora all’interno. E non uno qualsiasi. Nello specifico, Luigi Tesio, un medico che nella sua carriera ha attraversato tutte le tappe della professione: medico mutualista in un centro rurale, specialista in medicina fisica e riabilitativa, nonché ricercatore, in strutture come Pio Albergo Trivulzio di Milano, Maugeri di Pavia, San Raffaele di Milano e infine Istituto Auxologico di Milano, dove dirige l’Unità Clinica e il Laboratorio di Ricerche di Riabilitazione Neuromotoria dell’Ospedale San Luca. Luigi Tesio ha appena pubblicato un libro dal titolo emblematico, “I bravi e i buoni” che fotografa questa dicotomia. Dove i “bravi” stanno dalla parte della ricerca medica e i “buoni” dalla parte di chi facendo pratica clinica sta dalla parte di sanità e assistenza. Ma la scienza non è solo dei bravi, è anche di buoni, come recita il sottotitolo del libro.

Lei parla di un “deprezzamento sostanziale” della medicina clinica. Quali sono le conseguenze?
Stiamo creando sempre più medici-biologi o medici-amministratori, operatori sempre meno distinguibili da biologi e da manager, rispettivamente in bio-medicina e in sanità. Il clinico perde statura, il paziente perde il "suo" curante: cerca e trova sempre più spesso impersonali linee-guida oppure figure "alternative". Per il giovane medico è premiante occuparsi di settori sempre più parcellizzati nei quali saper fare una cosa vale molto più che saper scegliere che cosa fare. Ovviamente, occuparsi di qualcosa che si può guarire conviene rispetto ad occuparsi di qualcosa che si può solo curare.

E dal punto vista pratico questo cosa comporta?
Posso fare alcuni esempi. La crescita parallela (e paradossale) di medicina difensiva e medicina "alternativa"; la sovradiagnosi e la crescita inarrestabile di spesa diagnostico-terapeutica "inappropriata”. Oppure l'inflazione di frodi scientifiche e di "predatory publishers" nel "mercato" delle citazioni bibliografiche che divengono unità di misura di produttività della ricerca e influenzano le scelte sanitarie (oltre che le carriere accademiche). Infine si accendono conflitti, come quello università-ospedali nella gestione della formazione medica, o quello tra medici e altri operatori sanitari in merito alla specificità e all'autonomia degli atti medici stessi.

Ci sono proposte per la correzione di questa deriva?
Bisogna rivalutare la "scientificità" di metodi e di interventi confinati ormai nelle scienze psicologiche e sociali, dove invece hanno avuto grande sviluppo. Negli ospedali e nel territorio la figura del medico va rivalutata, e non soppiantata da altre professioni sanitarie: ma certamente va differenziata fra figure formate per "prendersi cura" della persona finalizzando a questo scopo il lavoro di una intera équipe, e specialisti formati per essere "ultra-settoriali", indispensabili solisti ma non direttori d'orchestra. Se non si riafferma e non si coltiva scientificamente la clinica tutto questo non è possibile.

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