Volontariato

Medici anti cancro soli come Di Bella

Sono oncologi, ricercatori e scienziati. Da anni inseguono una nuova cura per vincere la terribile malattia. Con terapie e metodi non ancora riconosciuti. Che i pazienti devono pagare di tasca propri

di Gabriella Meroni

Il professor Di Bella ce l?ha fatta. Alla soglia degli 85 anni, ma ce l?ha fatta. La comunità scientifica ha accettato di sperimentare la sua cura del cancro, e quindi – se tutto andrà bene – di distribuirla ai malati. Un riconoscimento, anche internazionale, dopo trent?anni di studi, 10 mila pazienti che giurano di dovergli la vita, minacce e umiliazioni. Ma che differenza fa? Qualche differenza, per la verità, c?è. E non si tratta di schierarsi a favore o contro la terapia del medico modenese, su cui non c?è ancora alcuna definitiva certezza. Ma di porsi un dubbio: e se Di Bella avesse ragione? Si sarebbero persi trent?anni utili a salvare migliaia di persone. A Di Bella oggi è offerta la possibilità di dimostrare la validità delle proprie conclusioni. Ma a molti altri ricercatori no. Sono i medici italiani che sostengono di aver messo a punto terapie per il cancro non tradizionali. Altri ricercatori, poi, stanno sperimentando terapie diverse da quella corrente ma che proprio per il fatto di essere diverse dalla chemioterapia sono a carico del paziente. In altre parole, chi vi si sottopone, quando non deve nascondersi, deve pagarsele. In attesa che la fase sperimentale abbia inizio, in qualche caso, e negli altri abbia termine. Ma questo fatto non è l?unico elemento che le accomuna: la caratteristica di quasi tutte queste terapie è che curano il cancro sfruttando sostanze naturali, già presenti nel corpo, o parti delle nostre stesse cellule. Al contrario della chemioterapia non sono cioè tossiche. E se avessero ragione loro? Enzima e diagnosi con l’analisi del sangue «Egregio collega, la Sua iniziativa è di indubbio rilievo ma di impegno finanziario tale da esulare completamente dalle attuali possibilità…». «L?iniziativa è degna di apprezzamento, ma…». Di lettere di questo genere, il dottor Filippo Della Rovere da Messina ne ha ricevute parecchie, dal ?90 a oggi. Così infatti il Cnr si è espresso nel ?93 e ?96 sulle sue richieste di finanziamento per progetti di diagnosi e terapia dei tumori. «Quello che mi fa più arrabbiare è che non mi danno i soldi pur ammettendo la validità dei miei studi. È una presa in giro». Il dottor Della Rovere, 47 anni, ricercatore dell?Università di Messina, da 13 anni studia quale ruolo nella terapia dei tumori potrebbe avere l?istamina, un enzima che nei ratti ha già bloccato lo sviluppo di un cancro molto veloce e invasivo (il sarcoma di Yoshida). Non solo: ha anche messo a punto un sistema di diagnosi precoce dei tumori, che permette di individuare la presenza di cellule anomale solo con un prelievo di sangue. Con costi bassissimi e procedure semplici, quindi, si potrebbe arrivare a diagnosticare subito e fermare in tempo lo sviluppo del male. «Nel 1988, dopo aver partecipato a una sperimentazione clinica in cui dimostrai la validità del mio metodo, scrissi a un professore, oggi membro della Commissione che deve giudicare Di Bella, sottoponendogli i risultati» racconta il dottor Della Rovere. «All?esame aveva assistito anche un aiuto del professore, che mi aveva incoraggiato. Attendo ancora una risposta». Filippo Della Rovere è amareggiato. Ha partecipato a decine di congressi internazionali, presentando comunicazioni sul suo lavoro. Ha vinto una borsa di studio dell?Associazione italiana ricerca sul cancro. È stato contattato dal professor Hellstrand dell?Università di Goteborg, in Svezia, pure impegnato nello studio dell?istamina, che lo invitava a collaborare, ma non ha potuto rispondergli. Qualche suo collega aveva intercettato la lettera, pensando bene di tenergliela nascosta per anni. Inutile rispondere oggi, dice Della Rovere, anche perché le sue ricerche sono bloccate a causa della mancanza di animali da laboratorio e della scarsità di finanziamenti. «Finora ho continuato a mie spese», conclude. «Ma adesso non ce la faccio più». La proteina antitumore in attesa da 16 anni La proteina anticancro o il vaccino anticancro. Così veniva chiamata l?Uk 101, una sostanza composta da tre proteine che il professor Alberto Bartorelli, immunologo dell?Istituto Sisini di Milano, sta studiando da 16 anni, e che riattiva le difese dell?organismo tenendo sotto controllo il tumore. Il caso Uk 101 ha molti elementi in comune con la vicenda Di Bella: anche per questa sostanza, come per la somatostatina, due anni fa si mobilitarono i giornali e gli ammalati scesero in piazza in nome della libertà di cura. Poi l?azione decisa di due ministri della Sanità, Elio Guzzanti e Raffaele Costa, incanalò la protesta sui binari istituzionali, annunciando l?avvio della sperimentazione. Che però è partita soltanto nel settembre scorso, nel reparto del professor Antonio Mussa all?ospedale ?Le Molinette? di Torino, su una ventina di pazienti. Scopo della fase preliminare, testare la tossicità della sostanza. «Sono nauseato da quello che sta succedendo per la cosiddetta terapia Di Bella», dice il professor Mussa. «Non è accettabile che a causa della disperazione, pur legittima, dei malati si saltino a pié pari le procedure scientifiche. Non si può avviare una sperimentazione avanzata per decreto ministeriale. Anche perché si crea un precedente pericoloso. Da domani chiunque potrà pretendere lo stesso trattamento riservato a Di Bella, e voglio vedere con che argomentazioni glielo si negherà». Il primo trial dell?Uk 101, comunque, è quasi terminato. Il professor Mussa non ne rivela i risultati, ma il tono è ottimista. «Se la Cuf sarà d?accordo, tra breve passeremo alla fase due, che coinvolgerà 400 pazienti. E infine alla fase tre. Perché le procedure, signori miei, sono queste». Ascorbato di potassio la sua arma vincente Il fattore K. Dove K sta per potassio, la sostanza chiave del metodo elaborato dal chimico Gianfranco Valsé Pantellini, che avrebbe la capacità di proteggere la cellula dall?attacco del cancro. Valsé Pantellini, classe 1917, allievo di Ettore Majorana, dal 1946 compie ricerche in campo oncologico e al Poggetto, il quartiere di Firenze dove opera, lo conoscono tutti. La sua metodica è sia preventiva che terapeutica e si basa sull?assunzione di ascorbato di potassio, un antiossidante che normalizza le alterazioni delle cellule neoplastiche. «Nessuno dei miei pazienti che dal 1970 si sottopongono alla cura preventiva hanno sviluppato un cancro, e sono molte centinaia», dice Pantellini. «E ho avuto parecchi casi di guarigione completa di tumori in fase iniziale». Inutile dire che il professore fiorentino ha sempre incontrato ostilità e indifferenza da parte di colleghi e case farmaceutiche. L?ascorbato di potassio, infatti, costa poche migliaia di lire, e se la sua efficacia fosse riconosciuta metterebbe in crisi il mercato dei farmaci tradizionali. Nel 1996 al suo studio hanno bussato anche i Nas. Ma il professore rimane ottimista, e continua a visitare i suoi pazienti. «La mia casistica è talmente vasta e positiva che sarà difficile fermare la marcia dell?ascorbato di potassio. Ci sono molti medici, chirurghi e anche oncologi che lo utilizzano perché ne hanno compreso l?utilità». Di riconoscimenti ufficiali, però, neanche l?ombra. Almeno in Italia. Non così a New York, dove Pantellini è stato ammesso alla prestigiosa Accademia delle scienze. Le cellule impazzite domate da un gene «L?obiettivo finale dell?oncologia genetica è ambizioso: sostituire il gene malato (l?oncogene) con uno sano. Il che si tradurrebbe nella sconfitta del cancro: un risultato ancora lontano, sebbene le ricerche di laboratorio su animali siano state esaltanti ». Così esordisce il professor Leonardo Santi, direttore scientifico dell?Istituto tumori di Genova, coordinatore degli Istituti di ricerca oncologici italiani, nonché componente della commissione che dovrà valutare il metodo Di Bella. E aggiunge soddisfatto che se la sconfitta del cancro non è ancora una realtà, ci sono applicazioni della terapia genica i cui risultati sull?uomo sono tangibili e accreditati a livello mondiale. «La strada praticata attualmente consiste nella modificazione del comportamento delle cellule, intervenendo sui geni. Riusciamo infatti a stimolare le difese immunitarie, a produrre le sostanze vitali all?organismo, che la zona colpita dal tumore non è in grado più di produrre, o ancora a veicolare all?interno della cellula malata sostanze in grado di distruggerla». Le risposte terapeutiche sono ottime, tanto da convincere il premio Nobel Renato Dulbecco, il ?papà? italiano della genetica, a dare il suo benestare. «Inizialmente era perplesso», ricorda Santi, «ma in seguito si è convinto dell?utilità delle terapie geniche per la cura dei tumori. Attualmente è presidente del Consiglio scientifico del Centro per le biotecnologie avanzate che vaglia il nostro operato». Ma la terapia è considerata ancora ?sperimentale? e dunque non finanziata dal ministero della Sanità. Ha invece ottenuto i contributi del ministero dell?Università e della Ricerca scientifica, della Unione europea e delle fondazioni bancarie. Il male è sconfitto da un’onda di calore Ipertermia. Il principio utilizzato è semplice, quasi elementare: il calore. Non altrettanto semplice è stato per il professor Paolo Pontiggia, l?oncologo che per primo ha applicato in Italia l?ipertermia, convincere i colleghi che un ?farmaco? tanto banale poteva dare risultati così incoraggianti. La terapia del calore funziona così: grazie a particolari apparecchiature, il tumore viene surriscaldato fino a raggiungere i 41/42 gradi. Le cellule malate, meno vascolarizzate rispetto a quelle sane, sono condotte al ?suicidio?, mentre le difese immunitarie, colpite da questa benefica febbre, ne escono rafforzate. La terapia funziona soprattutto con i tumori ormonodipendenti (mammella, prostata, utero) dove raggiunge una efficacia dell?80 per cento. Il professor Pontiggia e l?equipe dei suoi collaboratori (tra cui oncologi, chirurghi, immunologi) dopo 20 anni di sperimentazione hanno ottenuto il sì del ministero della Sanità entrando ufficialmente nel prontuario delle cure antitumore. Eppure l?indifferenza del mondo scientifico resta. «Siamo totalmente ignorati dalle case farmaceutiche, proprio perché non utilizziamo alcun medicinale», spiega Pontiggia. E incalza «Ed è questo il motivo per cui non ci hanno mai finanziato un congresso per esporre i risultati delle ricerche. Inoltre», continua il professore, «l?ipertermia è associabile ad altre terapie tradizionali (chemio, radio, immunoterapia), ma nonostante ciò la ?lobby? dei chemioterapisti continua a snobbarci. Un esempio? Le strutture pubbliche che posseggono i costosi macchinari di fatto li usano poco. E non mi spiego perché dal momento che l?ipertermia non ha alcun effetto tossico e può sovrapporsi ad altre cure». Trapianto di linfociti per difendere le cellule Il dottor Giovanni Melioli, responsabile del laboratorio di terapia cellulare del Centro di biotecnologie avanzate di Genova, ci tiene a mettere le cose in chiaro quando si tratta di terapie antitumore. «Non ci si può alzare al mattino e proporre un nuovo metodo. La medicina moderna insegna che dopo aver studiato il paziente, il medico può prendere decisioni non in base alle sue intuizioni personali, ma in base ai protocolli, vale a dire ai risultati delle ricerche cliniche ». E la terapia cellulare, che consiste nell?iniettare nell?organismo linfociti in grado di combattere le cellule malate, ha tutte le carte in regola , perché risponde ai canoni della sperimentazione controllata. «L?efficacia del trattamento», afferma Melioli, «l?abbiamo ampiamente dimostrata. I risultati sono stati pubblicati su riviste scientifiche specializzate ». «Non funziona su tutti i tumori», continua Melioli, «su quello del polmone abbiamo avuto una buona risposta». Attualmente il laboratorio del Centro per le biotecnologie avanzate si occupa proprio del trattamento delle cellule prelevate dai pazienti presso le strutture pubbliche. Ma solo una Usl di Firenze, caso unico in Italia, somministra la terapia per i propri assistiti solo se affetti da melanoma, rimborsando le spese. Le particelle colpiscono solo la parte malata Ci voleva in fisico dal nome noto, il professor Ugo Amaldi del Cern di Ginevra, per portare in Italia l?adroterapia, una delle forme più innovative e sofisticate di radioterapia, nata dal connubio tra fisica delle particelle e oncologia. È infatti una tecnica di estrema precisione, in grado di colpire solo le cellule tumorali, anche in profondità, applicata con risultati notevoli su tumori all?occhio, (dove funziona nel 95 per cento dei casi) e al cervello (65 per cento). In tutto il mondo sono stati trattati 20 mila casi. Mentre negli Stati Uniti e in Giappone sono attivi già da tempo quattro centri per la cura dei tumori che utilizzano correntemente questa tecnica sui pazienti, sembra che in Europa le difficoltà burocratiche per la sua applicazione siano insormontabili. Il professor Amaldi, presidente della Fondazione Tera (Terapia con radiazioni adroniche), ci sta provando dal 1992. «La vera difficoltà sono i costi elevati: un centro di adroterapia, che prevede un sofisticato acceleratore di particelle, costa più di 100 miliardi, contro i 12/15 miliardi di un comune centro di radioterapia», spiega il professor Amaldi. «Un primo tentativo per l?apertura di un centro a Novara è stato fatto con la regione Piemonte, ma nel 1995, dopo un cambio della guardia ai vertici amministrativi l?accordo tra l?ospedale novarese e la Regione è stato stracciato. E abbiamo deciso di seguire un?altra strada». Ora Amaldi sta lavorando per la realizzazione di un Centro convenzionato di adroterapia a Milano, nei pressi dell?abbazia di Mirasole, di proprietà dell?Ospedale Maggiore, insieme ad altri 9 colossi della sanità . Si attende solo che il Ministero della Sanità conceda i 33 miliardi che gli abbiamo richiesto per la costruzione dell?edificio. Le fondazioni bancarie, Cariplo e San Paolo, contribuiranno con altri 50 miliardi. «Attualmente», conclude Amaldi, « le nostre ricerche sono finanziate dalla Fondazione italiana per la ricerca sul cancro. Se le polemiche attuali sulle terapie oncologiche non distoglieranno troppo il ministro, speriamo di ottenere il finanziamento entro il 1998».


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