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Mauro Garofalo: “Sant’Egidio per la pace e la giustizia in Centrafrica”
Nonostante l’accordo di pace firmato nella sede della Comunità di Sant’Egidio il 19 giugno, il Centrafrica è ancora in preda alle violenze dei gruppi armati. Di ritorno da una missione a Bangui, il responsabile delle relazioni internazionali di Sant’Egidio e mediatore nella crisi centrafricana, Mauro Garofalo, assicura a Vita.it e al giornale Le Confident che “l’accordo rimane in piedi. La pace e la giustizia devono marciare insieme, ma ci vuole tempo”. Istituito un Comité de suivi appoggiato dal Presidente Touadéra per garantirne l’implementazione
Quali erano gli obiettivi di questa missione in Centrafrica e quali i risultati raggiunti?
La visita era già stata programmata perché sia i rappresentanti del governo che del Presidente della Repubblica avevano l’intenzione di mettere in pratica un follow-up congiunto dell’accordo di Roma. Questa visita è stata un’ottima occasione per incontrare sia le autorità politiche, tra cui il Presidente Touadera, l’Assemblea Nazionale, i ministri del governo, che le autorità religiose, penso alla conferenza episcopale, il pastore e l’imam assieme ai loro colleghi, a cui si sommano la società civile e i gruppi armati. Diciamo che è stata una missione giusta al momento giusto.
Da questi incontri che bilancio trae?
Le discussioni sono state molto franche e animate, ma l’accordo rimane in piedi e deve essere applicato. Certo, dopo la firma abbiamo sentito la necessità di dover spiegare a fondo il testo e le sue sottigliezze alla stampa centrafricana e internazionale, e soprattutto fugare notizie non vere che stavano circolando.
Quali?
Che l’accordo avrebbe concesso l’amnistia, ma non è vero niente. Chi ha letto il testo lo può confermare.
L'accordo rimane in piedi e deve essere applicato. Certo, dopo la firma abbiamo sentito la necessità di dover spiegare a fondo il testo e le sue sottigliezze alla stampa centrafricana e internazionale.
L’amnistia è per l’appunto fonte di molte polemiche in Repubblica centrafricana. Il Forum nazionale di Bangui che raggruppa la società civile, e i gruppi religiosi sono contrari e chiedono giustizia. Nel frattempo, c’è la necessità di reintegrare i gruppi armati nell’arena politica per porre fine al conflitto. Come conciliare due scenari così contrapposti?
Tutti i paesi africani che hanno attraversato una crisi così importante devono trovare la propria strada per fare i conti con il passato e con le violenze, e per applicare la giustizia. Il Centrafrica non fa eccezione. Ma non possiamo nasconderci dietro un dito: la Comunità internazionale è divisa sull’applicazione della giustizia in RCA. E’ un dibattito molto forte che pesa sulla presidenza della Repubblica centrafricana. Noi di Sant’Egidio abbiamo cercato di essere realisti, prendendo in considerazione anche tutti gli organismi internazionali che stanno lavorando sulla giustizia. Penso ovviamente alla Corte penale internazionale e alla Corte speciale nazionale che ha appena giurato davanti al Presidente Touadera.
Essere realisti cosa significa?
Significa che la giustizia e la pace devono marciare insieme, e che bisogna trovare un modo di uscire da questa spirale di violenza anche attraverso una dinamica di riconciliazione e di perdono, fermo restando che la giustizia va rispettata.
La giustizia e la pace devono marciare insieme, e bisogna trovare un modo di uscire da questa spirale di violenza anche attraverso una dinamica di riconciliazione e di perdono.
Ha evocato una Comunità internazionale divisa sul problema della giustizia. Può essere più preciso?
Mi sembra che ci sia un atteggiamento più generale che poi rispecchia le posizioni del Forum nazionale di Bangui, a sua volta sostenuto dalle Nazioni Unite, a favore della tolleranza zero. Di fronte a questa posizione, c’è un approccio a livello regionale meno rigido su questa problematica. Al di là delle convizioni degli uni e degli altri, credo che ci siano molti spazi di manovra per trovare una sintesi tra le due parti. C’è ancora molto lavoro da svolgere e questo accordo ha bisogno di tempo per essere applicato.
Quali sono le condizioni per implementarlo?
Stiamo per mettere in campo un Comité de suivi appoggiato Presidente e speriamo anche dell’Assemblea nazionale. Questo Comitato, di cui Sant’Egidio fa parte, avrà come obiettivo principale quello di applicare le misure previste dall’accordo e analizzarne di volta in volta le criticità che sono presenti e che hanno finora impedito di andare avanti in maniera più spedita. In un paese grande poco meno della Francia, dove la maggior parte del territorio è fuori controllo, abbiamo bisogno di tempo per spiegare e sensibilizzare l’opinione pubblica sui contenuti dell’accordo e i suoi obiettivi. Siamo comunque pronti a tornare in RCA per facilitare l’operatività del Comitato che stiamo mettendo in piedi.
Il Comité de suivi avrà come obiettivo principale quello di applicare le misure previste dall’accordo e analizzarne di volta in volta le criticità.
Durante la sua ultima missione, ha incontrato l’arcivescovo di Bangui, Dieudonné Nzapalainga, che all’indomani dell’accordo aveva dichiarato di non aver mandato nessun rappresentante a Roma per trattare e firmare l’Intesa di Sant’Egidio a nome suo. Il caso può considerarsi chiuso?
Sì, c’è stato un disguido sulla persona che era presente a Roma e sulla sua firma. Nell’incontro che si è svolto al seminario maggiore di Bimbo, abbiamo avuto uno scambio molto franco e fruttuoso sull’accordo. Il cardinale si è dichiarato soddisfatto dicendomi che hanno finalmente capito i contenuti dell’Intesa di Sant’Egidio e che ci sostengono.
Oltre l’arcivescovo, anche Edouard Patrice Ngaissona, responsabile del “coordinamento anti-Balaka”, un gruppo armato di questo movimento, aveva smentito di aver sottoscritto l’accordo. Tutto risolto anche qui?
Vorrei intanto sottolineare che le dichiarazioni non appartengono a Ngaissona, ma ad un suo rappresentante. La scorsa settimana ho avuto occasione di incontrare alcuni suoi collaboratori che hanno confermato la volontà di quella parte degli Anti-Balaka di aderire all’accordo. Oggi questo movimento rimane molto frammentato, del resto lo è dalla sua nascita nel 2012, con due grandi aree che emergono. La frammentazione si riflette nella sua struttura organizzata in comandi territoriali, i cosiddetti “com zones”. Ed è un movimento che si autodefinisce un movimento spontaneo patriottico di autodifesa e che quindi non dispone di una linea di comando chiara. Di tutti i gruppi armati centrafricani, sono quelli che meno esprimono una valenza politica, ma sono molto presenti sul territorio.
Come convincere i gruppi armati e i loro leader a deporre le armi mentre sulle loro teste pende il rischio di finire sotto processo e quindi probabilmente in carcere?
La questione della giustizia non è stata al centro delle discussioni che ho avuto durante la mia ultima visita in Centrafrica. Il vero focus sono state le misure concrete da mettere in pratica per uscire da un’economia di guerra e dal clima di violenze che hanno martoriato il paese in tutti questi anni. I centrafricani vogliono tornare a vivere in pace e condurre una vita normale. E’ chiaro che ci sono delle sanzioni internazionali e una Corte penale internazionale che avrà bisogno di molto tempo per ottenere risultati.
E' necessario uscire da un’economia di guerra e dal clima di violenze che hanno martoriato il paese in tutti questi anni. I centrafricani vogliono tornare a vivere in pace e condurre una vita normale.
Di nuovo, come convincere i leader?
Devono essere convinti parlando loro in bene del paese e del popolo centrafricano, che loro stessi dicono di voler difendere. Non nascondo che anche questo sarà un processo lungo.
Lungo quanto?
L’esperienza dimostra che questo tipo di processo di verità, giustizia e riconciliazione richiede molti anni. Una cosa è certa: non è realistico immaginare di andare a prendere con la forza i ribelli armati, portarli davanti alla giustizia e ristabilire l’ordine.
Per quale motivo?
I gruppi armati controllano più del 70% del territorio centrafricano. Oggi però non esiste una forza in grado di risolvere militarmente il conflitto. Solo il dialogo e una dinamica di riconciliazione potranno consentire alla RCA di uscire dalla crisi attuale.
Quali i margini di manovra del presidente Touadera?
Touadera ha dalla sua parte la legittimità politica e istituzionale conquistata attraverso la sua vittoria alle ultime elezioni presidenziali. E’ riconosciuto da tutti come una persona mite e onesta. Quindi per certi versi i suoi spazi di manovra sono ampi, ma non basta.
I gruppi armati controllano più del 70% del territorio centrafricano. Solo il dialogo e una dinamica di riconciliazione potranno consentire alla RCA di uscire dalla crisi attuale.
Quindi?
Quindi non dispone di un esercito e di forze di polizia in grado di ristabilire il controllo e la sicurezza sul territorio centrafricano; inoltre, l’economia centrafricana è disastrata. Nonostante questo, durante il nostro ultimo incontro a Bangui la scorsa settimana Touadera mi è apparso una persona calma e convinta di poter porre fine a questa crisi attraverso il dialogo. Ci auguriamo che la Comunità internazionale continui ad appoggiare in modo incondizionato i suoi sforzi a favore della pace.
In passato sono stati firmati parecchi accordi, con scarsi risultati. Che cosa differenzia l’Intesa di Sant’Egidio con quelli già siglati a Brazzaville, Nairobi o Libreville?
Non voglio giudicare i precedenti accordi. Quello sottoscritto a Roma è il risultato di un lavoro di oltre nove mesi con i gruppi armati, dell’ascolto fedele e rispettoso delle problematiche centrafricane e di un dialogo che si è svolto esclusivamente tra attori centrafricani. Ci sono due altri aspetti molto importanti che vanno sottolineati: l’accordo del 18 giugno è realistico ed è stato sottoscritto non in un periodo di transizione, ma con la presenza di autorità pienamente legittime che lo hanno avallato. Questo mi rende molto fiducioso. Ora bisogna mettere in campo i mezzi per attuarlo.
Quali sono i prossimi concreti da compiere per implementare l’accordo e fermare nel contempo le violenze?
E’ innazitutto necessario che i gruppi firmatari isolino, rendendoli inoffensivi, gli elementi che all’interno delle loro truppe non rispondono a nessun comando politico o militare e che fanno del banditismo il loro strumento di sopravvivenza. Ci sono poi piccole misure in apparenza poco importanti, ma essenziali come prendere in carica gli uomini di questi gruppi e le loro famiglie assicurando loro cibo, ad esempio. E’ una misura che ha destato un pò di stupore tra i centrafricani, ma vedo poche alternative per riportare tutte queste persone alla normalità. Come già anticipato, si tratta di un processo lungo, che va attuato in modo progressivo, regione per regione.
La sfida principale consiste nella capacità dei sostenitori dell’accordo di convincersi e convincere gli altri che dopo quattro anni di instabilità totale, è possibile costruirsi un nuovo futuro senza dover ogni volta rivalersi sulle popolazioni civili per ricavare cibo e denaro oppure sfruttare in modo illegale le risorse naturali e minerarie del paese.
Si è parla molto della presenza dei mercenari sudanesi e ciadiani che nel 2003 avevano portato l’ex Presidente Bozizé al potere, per poi contribuire alla sua caduta. Che danni possono fare all’accordo?
Non sarei ossessionato dalla cittadinanza. E’ evidente che durante la sua presa del potere nel 2012-2013, la Seleka ha potuto contare sull’appoggio di mercenari stranieri. Alcuni di loro sono ancora presenti nel paese e risultano molto nocivi, vuoi perché non ci sono autorità capaci di cacciarle dalla RCA, ma anche perché ci sono risorse da sfruttare. L’unico modo per porre fine a questo problema è spezzare l’alleanza che ancora sussiste tra questi mercenari e i gruppi armati, con un controllo progressivo sull’insieme del territorio nazionale.
Oggi più che mai la popolazione civile è stanca della guerra. Per fortuna, la Comunità internazionale non ha mai abbandonato il Centrafrica, ma anche i donatori sono stanchi. Quindi questo accordo arriva in un momento molto importante, mi auguro che possa contribuire a creare consenso sul disarmo e ad armonizzare certe posizioni.
Articolo realizzato in partenariato con il giornale privato centrafricano Le Confident.
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