Politica
Matteo Renzi nell’era della post-verità
Politici e commentatori, anche se di parte avversa, hanno riconosciuto a Renzi la “nobiltà” del suo messaggio alla nazione, una cerimonia democratica a cui non eravamo abituati. Per capirla bisogna però cogliere una fondamentale differenza: quella - spiega il sociologo Alberto Abruzzese in questa intervista - tra Berlusconi e Renzi: «Berlusconi è andato dritto sui desideri. Renzi ha dovuto competere sul piano delle idee. Berlusconi ha agito nella politica restandone interamente fuori come persona. Renzi non ha potuto farlo»
di Marco Dotti
Benvenuti nell'era che non crede più ai fatti. Benvenuti nell'era della post-verità, la post-truth era. Questo neologismo, eletto parola dell'anno 2016 dall'Oxford English Dictionary, è stato in qualche modo capace di condensare in una sola parola alcuni dei problemi che toccano la vita sociale e politica degli ultimi mesi. Una vita non più apertamente giocata tra accuse di verità o di menzogna, ma appesa al chiaroscuro di parole e discorsi che attengono al "verosimile", al "né falso, né vero" e, al tempo stesso, diventano parzialmente falsi e parzialmente veri. Trump ha fatto il resto. Se la menzogna è una pratica (e, talvolta, un'arte) volta a ingannare con la piena consapevolezza di voler ingannare, la post-verità, prendendo la definizione del prestigioso dizionario Oxford, si caratterizza per una situazione dove i dati di fatto, veri o falsi che siani, «sono meno influenti nel formare l'opinione pubblica di quanto non lo siano le emozioni». Impossibile ricorrere al fact-checking, la prova dei fatti, quando siamo davanti a simulacri. Tutto nasce, finisce e muore nelle dichiarazioni in un talk show. Con un effetto-domino evidente su ciò che sta fuori quei talk show. Le ultime elezioni americane sembrerebbero confermare questa tendenza. Colpisce che nel discorso pronunciato la mattina del 5 dicembre scorso, dopo la sconfitta del "Sì" e l'affermazione dei "No" al Referendum costituzionale, Matteo Renzi si sia riferito proprio a una vittoria della post-verità. Anzi, le abbia riservato un posto chiave, subito dopo i ringraziamenti alla moglie Agnese.
Grazie ad Agnese per aver sopportato la fatica di mille giorni e grazie per come ha splendidamente rappresentato il nostro Paese. Grazie ai miei figli e grazie anche a tutti voi, anche se ringraziare i giornalisti alla fine è quasi una cosa impossibile. Sono stati mille giorni che sono volati, ora per me è il tempo di rimettersi in cammino, ma vi chiedo nell’era della post-verità, nell’era in cui in tanti nascondo quella che è la realtà dei fatti, di essere fedeli e degni interpreti della missione importante che voi avete e per la vostra laica vocazione.
Matteo Renzi, discorso del 5 dicembre 2016
Come leggere questo riferimento? Come leggerlo, in particolare, nel quadro di un discorso segnato dalla malinconia di una sconfitta e dal lutto di un possibile abbandono? Abbiamo chiesto al professor Alberto Abruzzese, sociologo, tra i massimi esperti dei processi comunicativi e di produzione dell'immaginario, che a quella che potremmo chiamare l'archeologia della post-verità ha dedicato moltissimi studi, di aiutarci a capire.
Ora che abbiamo stabilito che non c'è alcun pericolo di deriva autoritaria, il problema è che siamo entrati in una società della post-verità. Nei talk show non esiste la verifica reale dei fatti e chiunque può dire qualunque cosa
Matteo Renzi, Scuola di formazione del PD, 2 ottobre 2016
Il principio di antipatia del leader
Sul finale del discorso con cui Matteo Renzi ha annunciato le dimissioni da presidente del consiglio appare un riferimento alla «era della post-verità». Renzi afferma: «vi chiedo nell’era della post-verità, nell’era in cui in tanti nascondono quella che è la realtà dei fatti».
Come legge questa affermazione?
Prima una parentesi che vale da cornice. Per me necessaria, a giudicare lo scudo antirenziano sollevato subito dopo il referendum da massima parte dei media in base alla antipatia del leader. Anti-patia: anti (contro) e pathos (affezione, passione). Dunque qualcosa in cui il soma, l’immagine, pregiudica il senso delle parole, le vanifica. L’apparenza va al di là della sostanza. Lascio perdere, per brevità, quanto si potrebbe dire sulla forma di tale antipatia, sullo specifico genere delle posture renziane che sarebbero la causa di tale “ripugnanza” nel pubblico. Se a sollevarla fosse la sua “naturale comicità”, si potrebbe essere tentati di sostenere che il registro retorico di Renzi è oggettivamente estraneo alla commedia e alla tragedia. Impossibilitato ad agire l’inclinazione che ordinariamente il discorso politico ha per le mediazioni della commedia e per il radicalismo della tragedia. Il genere comico, basato sull’istinto automatico dello spettatore, funziona quando l’attore simula la propria comicità ma non ne è invece esso stesso la vittima. Ma questa distinzione tra comicità e commedia del discorso politico ci porterebbe lontano; è meglio ragionare ricorrendo a due vite parallele.
Berlusconi è andato dritto sui desideri. Renzi ha dovuto competere sul piano delle idee. Berlusconi ha agito nella politica restandone interamente fuori come persona. Renzi non ha potuto farlo
Alberto Abruzzese
Renzi e Berlusconi?
Precisamente. Renzi e Berlusconi, diversissime tra loro eppure complementari (che non si questa la traccia già segnata di una più o meno rapida alleanza tra i due, magari con la mediazione simbolica di qualche politico di immagine centralista?). Berlusconi è stato un leader che ha sempre reso compatibile tra loro la “verità” della propria persona – un desiderio di sesso per nulla “politicamente corretto”, espressione di una volontà di potenza in sé e per sé straripante, segno di sovranità assoluta – e la “verità” strumentale delle proprie strategie di governo/potere. Strumentalismo che fa della verità ciò che essa è davvero: buona per alcuni e per altri menzogna. Renzi è invece un leader la cui “verità” personale è quella di una “macchina celibe”: se fosse stato “bello” – corrispondente cioè alla fisiognomica del successo – il suo potere di convincimento sarebbe stato e sarebbe ancora inarrestabile. Bisognerebbe riflettere di più sulla differenza che passa tra un Berlusconi che viene rifiutato da una parte di opinione pubblica per ragioni culturali connesse strettamente al suo aspetto socio-antropologico, e un Renzi che si è scontrato con la legge sovrana – trasversale – del comportamento somatico. Berlusconi è andato dritto sui desideri. Renzi ha dovuto competere sul piano delle idee. Berlusconi ha agito nella politica restandone interamente fuori come persona. Renzi non ha potuto farlo.
Berlusconi è stato un leader che ha sempre reso compatibile tra loro la “verità” della propria persona – un desiderio di sesso per nulla “politicamente corretto”, espressione di una volontà di potenza in sé e per sé straripante, segno di sovranità assoluta – e la “verità” strumentale delle proprie strategie di governo/potere. Renzi è invece un leader la cui “verità” personale è quella di una “macchina celibe”: se fosse stato “bello” – corrispondente cioè alla fisiognomica del successo – il suo potere di convincimento sarebbe stato e sarebbe ancora inarrestabile
Alberto Abruzzese
Per leggere la portata di questo difetto manca una letteratura adeguata a valutare la potenza esclusiva della “bellezza”: la Grande Bellezza di Sorrentino, la bellezza salverà il mondo, la regola dominante della pubblicità, degli intellettuali e creativi, dei consumi, delle arti: dovunque – in virtù del loro totalitarismo sul piano persino della vita minuta delle relazioni affettive e familiari – si faccia egemone una saldatura tra estetiche e ideologie del gusto, dotate della capacità di emarginare qualsiasi portatore di “disgusto” (innanzi tutto nel campo dell’attrazione sessuale e amorosa: desideri che scattano solo quando trovano un oggetto corrispondente ai canoni della bellezza e si mortificano se non lo trovano).
Una delicata partita a scacchi
Renzi sembra debole sulla tattica, ma strategicamente è in grado di disegnare sempre nuove vie d'uscita…
In un certo modo – per quella dote istintiva che possiede nel mettersi in gioco lasciando comunque aperta per sé, ad ogni suo effettivo o supposto errore tattico, la mossa successiva da fare – Renzi ha parlato di vittoria di chi lo ha votato votando per il sì e insieme di sconfitta sua personale. Come a dire che il suo elettorato è viva parte della nazione per la quale ha sentito e continuerà a sentire la vocazione di politico (ha parlato retoricamente di nazione e di patria ma si sa che si rivolgeva al “popolo”).
Ha davvero fatto male il giovane toscano ad avere polarizzato il voto sulla sua persona di leader?
A strumentalizzare il gioco referendario delle opposte parti esattamente come hanno fatto – e continuano, continueranno a fare, tutti gli altri attori del no? Operando diversamente, non avrebbe rischiato di perdere di “ruolo”? Di colare a picco insieme alla caduta della riforma costituzionale? Certo è che il suo fronte nemico – proprio per la spregiudicatezza delle forze (età, cultura, ceto, condizioni materiali) che vi si sono aggregate, rinunciando così ad ogni radice politica identitaria ma guadagnando il rivolta di popolo – avrebbe avuto comunque grandi probabilità di piena vittoria. E allora, per come è andata, il suo 40%(quand’anche ridotto, alla bisogna, di varie quote strumentali ora già pronte a abbandonarlo) può costituire la risorsa che gli consentirebbe di tradurre – agendo in modo diverso, cambiando tavolo e regole del gioco – la rottamazione istituzionale, costituzionale, che lo ha sconfitto, e così da replicare ciò che, pur in modo rocambolesco, ha saputo fare “contro” il proprio partito. Immaginatevi un PD che di questi tempi – ruotando ancora intorno a leader come Bersani – fosse restato chiuso nei suoi dilemmi storici! Dilaniato al proprio interno dai diversi interessi sociali e più ancora pseudo-sociali, che, a causa di una dissipazione ancora più selvaggia, lo avrebbero portato ad una caduta pari a quella democristiana (tra parentesi: una dissipazione che in breve tempo ha rivelato il carattere suo principale di cultura comune – condotta politica – buona ad ogni suo travestimento in partiti e movimenti di centro-destra ma che Renzi ha invece in qualche modo ancora “trattenuto” dentro i confini del PD. Ma ovviamente tutte queste mosse di Renzi – reali o virtuali che siano – non possono essere fatte se non attenendosi al clima retorico oggi sempre più condiviso…
E qui torniamo al punto della post-verità…
Renzi ne fa parte dell'era della post-verità come tutti gli altri e lo conferma evocando il tema (un tema nazionale ma anche globale, forse anticipato con qualche maggiore rigore filosofico, dalle teorie sulla oggettività dei “fatti”). Un tema che invece di sciogliere rinsalda sempre più l’equivalenza tra verità e menzogna proprio da parte di chi pretende di dire la verità. In tal modo nella speranza – desiderio – di imporla.
Passione vs. passione
Non le sembra un paradosso che la democrazia, oggi, vada in crisi proprio nel momento in cui è chiamata a uscire dal piano orizzontale delle procedure, entrando in quello verticale dell'esercizio del consenso? Dopo tutto, si è trattato di un referendum non di un colpo di Stato…
La richiesta di voto referendario è di per sé sempre frontale e a suo modo radicale in quanto riduzione al minimo di tutte le altre opzioni possibili, decisione senza scampo tra te stesso e l’altro, la tua volontà e quella dell’altro, il tuo bene, interesse, contro quello dell’altro e infine il tuo desiderio al posto di quello degli altri. Immaginazione contro immaginazione. Passione contro passione. Quindi decisione, imperativo, quanto più eticamente (campi religiosi o di religiosità laica) e ideologicamente (identità) promiscuo. Atto di forza, speranza di prevaricazione. Il voto referendario è per più aspetti la quintessenza dei regimi democratici che sono condannati a esercitare il potere sulla base di maggioranze che sono di diritto “assorbite” da minoranze. La crisi della democrazia è endemica. Tengo a precisarlo: da sempre e ora più che mai (a causa del convivere nelle reti di diversi “insiemi” di persone in cui si miscelano aperture e insieme chiusure, flessibilità e inflessibilità del sentire individuale), è ben difficile non ammettere che la verità è dominio del potere, serve al potere e, rovesciata, al potere che gli si contrappone, ma altrettanto difficile è indagare le pulsioni dei singoli una volta che – come è accaduto da tempo – venga meno l’autorità che li corazzava e quindi stato e partito: una intera gerarchia di valori. Molti politici e commentatori, anche se di parte avversa, hanno riconosciuto a Renzi la “nobiltà” del suo messaggio alla nazione, la cerimonia democratica che ha recitato: se non lo avessero fatto avrebbero mostrato di non condividere i valori – anche emotivi – di tale cerimonia.
Immagini: Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, il 5 dicembre 2016 (Franco Origlia/Getty Images)
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