Politica

Matteo, dov’è l’economia sociale nelle politiche dei tuoi Ministri?

Nonostante il premier abbia dimostrato di credere in un nuovo modello economico, in nessuna delle politiche attive sono a tutt’oggi richiamati modelli di economia sociale, né come principi ispiratori né tanto meno come soluzioni concrete. Eppure, gli ambiti di applicazione potrebbero essere molteplici. Occorre una sterzata

di Andrea Rapaccini

Negli ultimi mesi la Presidenza del Consiglio è stata coinvolta in contesti pubblici nei quali si auspicava un “cambiamento di paradigma” nell’economia soprattutto nella gestione dei beni e servizi di interesse pubblico. In tali consessi il  Governo si è sempre espresso a favore di modelli di economia più solidali (sulla linea del “valore condiviso” di Michael Porter) e di soluzioni che rendessero il terzo settore sempre più protagonista nelle risposte alle problematiche sociali di questi anni.

In questo spazio di sviluppo si è inserito il cambiamento della legge 155 sull’impresa sociale, non come mera modifica di un pezzo (per ora piccolo) del terzo settore, ma piuttosto come un nuovo modello economico  – non speculativo –  per gestire l’interesse pubblico. Attorno agli “interventi dall’alto” realizzati dal Governo si sarebbe potuta collegare una “rivoluzione dal basso” attivata dal movimento dei makers, dai nuovi cooperatori sociali e da imprenditori ed investitori profit che intendono impegnarsi in un modello economico più equo.

Matteo ci ha comunicato questa visione negli incontri presso la redazione di Vita, dove ci è sembrato avesse chiare in testa le conseguenze e gli impegni che si stava assumendo.

Dietro la sua frase ” il terzo settore è il primo” c’era una visione di una società diversa ed un impegno a trasferire i modelli valoriali (non le forme giuridiche!) presenti nel terzo settore, anche all’interno di altri settori dell’economia,  per affrontare in modo sostenibile alcuni dei problemi sociali del Paese.  

Era evidente che questa nuova forma di economia solidale avrebbe superato la dicotomia tra profit e non profit/filantropia, come quella tra pubblico e privato. Insomma, una via europea allo sviluppo che riuscisse ad andare oltre le ricette tradizionali richieste dai mercati finanziari internazionali, come il solito rilancio dei consumi, l’ incremento del PIL, la ripresa delle privatizzazioni e la riduzione del debito.

Ma perché non fossero solo dichiarazioni di principio, questo nuovo modello di economia, valorizzato dalla modifica della 155, avrebbe dovuto integrarsi nelle politiche del Governo. In altre parole senza collegamento con le politiche, l’economia sociale non sarebbe andata lontano e si sarebbe persa l’ennesima occasione per “cambiare verso”.

Poi però sono uscite le prime Leggi Delega dei Ministri e i primi Decreti del Governo Renzi

In nessuna delle politiche attive sono a tutt’oggi richiamati modelli di economia sociale, né come principi ispiratori né tanto meno come soluzioni concrete. Eppure, gli ambiti di applicazione potrebbero essere molteplici e riguardare la difesa dei livelli occupazionali,  la ristrutturazione della macchina pubblica, la valorizzazione dei beni comuni, l’istruzione e la scuola, i sistemi di welfare per le famiglie, la gestione di alcuni servizi ed infrastrutture di interesse locale (es. ciclo idrico), la gestione ambientale, persino l’ambito giudiziario con lo sviluppo dei sistemi d’integrazione lavorativa dei carcerati. Di tutte queste possibilità di applicazione e di altre molto è stato scritto, anche su queste pagine.

Purtroppo nessuna di queste ipotesi è, a tutt’oggi, contemplata dalle direttive del Governo. Soffermiamoci in particolare sulle due azioni di politica di cui si sta discutendo in questi giorni e che riguardano principalmente due Ministeri :

  • Ministero de Lavoro.  A fronte di una crisi strutturale del lavoro non ritrovo nessuna misura per favorire processi di ristrutturazione responsabile, tra l’altro promossi ed incentivanti sin dal 2012 da quella parte  “buona” della UE. Nulla che faccia riferimento all’utilizzo dell’impresa sociale come rescue company, ovvero come opportunità di riqualificazione e reinserimento lavorativo di esodati. Inoltre, nella confusione delle politiche ministeriali e regionali relative alla Garanzia Giovani, non è presente alcuna iniziativa specifica a favore l’imprenditoria sociale giovanile, che promuova le start-up innovative a vocazione sociale, che favorisca e supporti il fenomeno crescente dei “makers”. L’aspetto più preoccupante è verificare come all’interno dello stesso Ministero, responsabile di seguire l’iter normativo per la modifica della 155, le azioni sul Job Act e sulla Garanzia Giovani sono totalmente slegate dai modelli di economia sociale che la nuova 155 dovrebbe contribuire a sviluppare. Insomma, è come se la mano destra non sapesse quello che fa la mano sinistra.
  • Ministro dello Sviluppo economico. In particolare, nel Decreto Sblocca Italia non si fa riferimento alcuno a soluzioni di economia sociale per gestire gli immobili demaniali dismessi, per riqualificare e bonificare le aree di rilevante interesse nazionale e per gestire infrastrutture logistiche e culturali nell’interesse della comunità. Si parla piuttosto di privatizzazione di beni demaniali con il rischio di attivare processi non regolati che cedono beni di comunità in mano a pochi, aprendo a potenziali rischi speculativi. In questo ambito la nuova impresa sociale – low profit potrebbe rappresentare il modello alternativo ai sistemi di privatizzazione tradizionale e consentirebbe il coinvolgimento di tipologie di investitori responsabili che hanno attese di ritorno di lungo periodo.

A questo punto mi domando. Perché un Premier che ha una visione cosi solidale della società non riesce ad esprimerla nelle politiche del proprio Governo?

Forse il problema va ricercato nelle struttura funzionale con la quale è organizzata la macchina pubblica.

La linea di un Governo non dovrebbe essere vista come la sommatoria delle politiche verticali dei suoi Ministeri, ma deve contenere una visione integrata della società a cui le politiche ministeriali dovrebbero ispirarsi. Risulta necessario quindi superare le verticalità ministeriali che non colgono le complessità e le interconnessioni tra gli ambiti. Oggi non si può fare politica ambientale senza integrarla in un quadro di politica economica, non si può parlare di istruzione o scuola senza collegarle alla riforma del lavoro, così come non si può pensare alla ristrutturazione della macchina pubblica non integrata alle politiche di sviluppo del secondo welfare o dell’economia sociale.

La modifica 155 è stata invece affrontata in logica verticale, confinandola all’interno della riforma del terzo settore, come se il terzo settore stesso fosse un ambito industriale specifico e non un modello di intervento trasversale alle politiche sociali ed economiche.

Cosa fare quindi?

Se la visione di Matteo Renzi è quella di trasformare la società in un modello più equo e responsabile, l’economia sociale di mercato deve per forza giocare un ruolo centrale in questo processo di trasformazione. A questo punto, forse, un’ Unità di Missione specifica in riporto diretto alla Presidenza del Consiglio potrebbe favorire l’integrazione dei modelli di economia sociale nelle politiche ministeriali e, conseguentemente,  l’affermazione concreta della visione del Governo.

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