Volontariato

Matoub, indomito leone berbero

Fu picchiato nel 1980, ridotto in fin di vita dalle pallottole dei gendarmi nel 1988, sequestrato dai terroristi islamici nel 1994. Era il mito e l’eroe di milioni di giovani e vecchi che sanno a memo

di Ghania Khelifi

«Piuttosto spezzarsi, mai piegarsi?, questo proverbio cabilo che Matoub Lounès amava spesso citare era un po? la sua filosofia di vita. Poeta, cantante, militante della causa delle libertà fondamentali e in particolare della libertà culturale, l?idolo della gioventù cabila aveva come fedele compagna la morte. E proprio la morte l?ha sorpreso il 25 giugno, e ha avuto il volto di un commando di integralisti islamici che l?hanno freddato a colpi d?arma da fuoco. Nell?ottobre del 1988, mentre Algeri era sconvolta dalle sommosse dei giovani contro il regime, distribuiva volantini per invitare la popolazione di Tizi Ouzou (capitale della grande Cabilia) ad esprimere solidarietà a quel movimento di protesta. Dei gendarmi gli spararono e sopravvisse miracolosamente dopo aver subito 17 interventi chirurgici: da allora si alimentò la legenda di Matoub ?duro a cuocere?. Canterà gli eventi di ottobre ?88 con la stessa tranquilla audacia con la quale tenta di aprire le più ermetiche porte: «Sappiamo che quando le ostilità cesseranno, saranno coloro che le hanno provocate a godere della gloria; in quanto ai martiri tireranno via le castagne dal fuoco e lasceranno vedove disperate». «Dovete accettarmi come sono» Ancor prima, nel 1980, la sua figura di anarchico si confondeva con il militante del pluralismo culturale. Una lettera dell?alfabeto berbero portata a ciondolo, una giacca da paracadutista, lo sguardo duro, Matoub era uno degli organizzatori e il portavoce della Primavera berbera, selvaggiamente repressa dalle forze dell?ordine il 20 aprile 1980. La sua rivolta e il suo parlare chiaro non s?allentano con gli anni. In un Paese dove la religione è un tabù, Matoub dice pubblicamente: «Sono prima di tutto algerino, non sono arabo, non sono costretto ad essere musulmano. Bisogna accettarmi come sono. Bisogna che la tolleranza si faccia strada in Algeria». Milioni di giovani l?hanno adottato così com?era , con i suoi colpi di testa, le sue fissazioni e la sua generosità. Lui sapeva ricambiarli come in questo messaggio d?amore: «La amo, questa gente. Mi ha dato un nome e mi ha sempre sottratto dalle grinfie dell?avversità». Tuttavia la sua laicità dichiarata, il suo rigetto dell? egemonia araba come unica identità gli hanno valso l?odio degli integralisti islamici. Nel 1994, un gruppo islamico armato lo rapisce mentre si trova in un caffè del suo villaggio. La Cabilia, e tutto il Paese, vive nell?angoscia della morte di Matoub. Nella sua regione una mobilitazione senza precedenti costringe i terroristi a liberare l?artista. A Roma, pensando a Giugurta Il gruppo islamico armato capisce la forza del sostegno popolare e ha paura. La Cabilia sarebbe diventata un inferno per gli islamici. Matoub è liberato e festeggiato come un eroe. Nel suo libro ?Il ribelle? racconterà la sua detenzione con i terroristi. Un tribunale islamico lo condanna a morte, la sentenza non viene eseguita ma il gruppo armato gli chiede di tacere e smettere di cantare. ?Il ribelle?, edito in Francia, è un successo. Non era però l?obiettivo di Matoub: «Non ho pensato a un mio successo, è come una sbronza che uno deve far passare. L?ho fatto soltanto per liberarmi dal pieno di sofferenza e dolore». Matoub ha una sensibilità acuta. L?assassinio dello scrittore Tahar Djaout (1993) conferma che l?artista rifiuta il ruolo di spettatore. In un album che dedica agli intellettuali assassinati, stranamente fedele al suo destino di martire annunciato, si rivolge a Kenya, la figlia di Tahar. «Kenya, figlia mia/ affronta il dolore, siamo caduti per l?Algeria di domani/ anche se il corpo marcisce l?idea è eterna/ le lotte sono amare/ ma troveremo il rimedio/ anche se cancellano le stelle/ il cielo mai ne sarà sprovvisto/ non lasciarti morire piccola». I temi della sua poesia si confondono con i lutti per gli amici e della sua gente. L?hanno accusato di fare politica ma lui dichiara: «In un Paese lacerato come il nostro, se non andiamo alla politica, la politica ci viene incontro. Non posso tacere di fronte al dramma dell?Algeria, la neutralità oggi è una posizione negativa. Bisogna scegliere il proprio campo». Aveva scelto la libertà di pensare e di dire. Dopo la sua liberazione dal Gia, Said Mekbel, un famoso editorialista gli lancia una sfida : «O prosegui a ruggire come un leone indomato oppure ti rannicchi nel tuo guscio come una lumaca?. Matoub ruggirà ancora di più. Moltiplica le sue tournée e canta in berbero negli Stati Uniti, in Canada e in Europa. Prestigiosi premi gli vengono assegnati per la sua lotta per la democrazia e le libertà. Nel 1996 è ricevuto dal Presidente Scalfaro dopo aver partecipato alla marcia per l?abolizione della pena di morte nel mondo. Approfitterà dell?occasione per riaffermare la sua algerianità e dedicherà la sua visita a Roma a «Giugurta, re della Numidia morto qui in una cella più di 2000 anni fa». La sua poesia è fiorita per strada La sua celebrità e la sua gloria non gli hanno mai fatto perdere il senso della realtà e della misura. Il suo villaggio, Taourirt Moussa, è l?unico luogo dove si sentiva felice. Ci passava le giornate a chiacchierare con i giovani e a ricevere ospiti che a volte non conosceva nemmeno. Chi si è stupito della marea umana presente ai suoi funerali ignora che nella città di Tizi Ouzou e nei villaggi della regione tutti si considerano amici del poeta. Matoub non rifiutava mai di animare un matrimonio o una festa anche dele famiglie le più umili. Si fermava a un angolo di strada per una partita di poker o a giocare con un palla di cartone. Le immense antenne paraboliche sul suo terrazzo testimoniano la sua generosità. Le ha fatte installare per permettere ai paesani di vedere a casa propria i canali stranieri. La televisione di Stato ha passato la notizia della morte del cantante in secondo piano scegliendo di aprire le informazioni sulle attività del Presidente Zeroual. Nessun ufficiale ha presenziato ai funerali, temendo la reazione del popolo. E poi quale rappresentante del potere avrebbe potuto ascoltare la musica dell?ultimo cd di Matoub diffuso a tutto volume mentre veniva seppellito? Un disco iconoclasta. Sulle note dell?inno nazionale Matoub canta le infamie del regime, inchioda nominandoli i suoi dignitari e fustiga gli islamici. «Coloro sopra i quali pesa la porta/ se credete che lasceranno le chiavi come vi è già capitato/ siete assai ingenui/ (…) Con le radici e la chiarezza dello spirito/ sbarazzeremo l?Algeria del tradimento!/ Tradimento!/ Tradimento!». L?album dal titolo ?Lettera aperta a …? è già destinato a essere vietato in Algeria. Matoub però non ha costruito la sua popolarità sui canali ufficiali di comunicazione. La sua poesia, imparata a memoria dagli algerini, è fiorita per strada. «Non voglio morire di stanchezza» Sua madre, alla notizia dell?assassinio, ha subito pensato a quell?inno nazionale maltrattato dal figlio. Un brutto presentimento l?aveva colpita prima della registrazione. Suo figlio aveva insistito a farsi accompagnare da lei, negli studi, per avere la sua benedizione. Era il lato imprevedibile di Matoub, stuzzicare il regime con sfacciataggine e supplicare la madre per una benedizione. Era anche per lui un modo di dire «Grazie a Dio sono vivo» dopo la sua guarigione, nel 1997, dalla tubercolosi e per avvertire i suoi che non voleva preghiere per i suoi funerali. La sua volontà è stata rispettata: nessun rituale funebre, nessun versetto del Corano. Solo la sua voce ha lacerato il cielo della Cabilia mentre il suo corpo troppo spesso aggredito riposava finalmente fra un fico e un ciliegio. Tradimento. Lui non voleva morire di «sfinimento e stanchezza» e ha avuto ciò che ha desiderato. Lascia in eredità i suoi testi, ispirati a una realtà autentica dove immagini e proverbi prendono nuove dimensioni. Lascia anche una Cabilia in convulsione decisa a offrire alla memoria del suo cantore il riconoscimento ufficiale della lingua Amazigh. «Come nominare il nero senza evocare il chiarore del bianco?», «O occhio osserva e guarda lontano, l?istante non ci deve sorprendere negligenti/ (…) Donne e uomini a l?unisono, siamo tutti pronti a perire perché viva la nostra identità» cantava Matoub Lounès, assassinato a 42 anni da un gruppo armato islamico il 25 giugno 1998 su una piccola strada della campagna cabila.


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