Famiglia

Matilde Leonardi: «le persone sono più della malattia che hanno»

Intervista sui temi della disabilità e non autosufficienza con Matilde Leonardi, candidata per la lista Ferrara

di Sara De Carli

Nei confronti delle persone con disabilità noi italiani siamo generalmente buoni. Il problema è che ancora non siamo giusti. Perché siamo ancora lontani da una cultura dei diritti e oggi più di ieri abbiamo ceduto all?idea che la malattia sia un fattore discriminante per l?accesso ai diritti. A sostenerlo è Matilde Leonardi, neurologa e pediatra esperta di disabilità, vicepresidente della Fian- Federazione Italiana Associazioni Neurologiche e candidata in dieci collegi nelle liste di Giuliano Ferrara.

Ultimamente abbiamo sentito moltissime denunce di abbandono da parte dei disabili e delle loro famiglie, con pesanti iniziative ? come lo sciopero della fame di Salvatore Crisafulli e di altre persone in stato vegetativo ? e pesanti accuse allo stato ? come quelle fatte nella cornice istitzuionale dell?ultima Giornata per le persone con disabilità. Qual è la situzione reale delle persone con disabilità oggi in Italia?
Pretendiamo che le famiglie siano eroi, senza nemmeno dare loro la possibilità di scegliere se vogliono o meno prendersi cura del famigliare in difficoltà. La non autosufficienza coinvolge persone di tutte le età, che quindi hanno alle spalle famiglie diversissime. Il ragionare in maniera disorganizzata ? è questo il problema ? crea buchi molto grandi nel settore, senza che la famiglia possa scegliere. Per questo la famiglia si sente abbandonata: i servizi ci sono anche, ma tra i nodi della rete i buchi sono talmente grandi che la famiglia ci cade dentro, ne viene risucchiata. Questo non è corretto anche perché l?Italia ha ottime leggi e tutta la professionlità che serve, andrebbe sfruttata in maniera più razionale.

Quindi non servono nuove leggi?
Il fatto è che oggi in Italia abbiamo una definizione di non autosufficienza basata prevalentemente sull?incapacità di compiere le operazioni della vita quotidiana, e che introduce nella definizione solo alcun categorie predefintie. La difficoltà di questa definizione è duplice, perché in questo modo si genera una lotta tra categorie per rientrare sotto questo cappello e poter avere dei benefici, mentre noi in Italia avremmo la possibilità, se applicassimo le leggi, di non fare interventi indiscriminati e a priori, ma interventi individualizzati, costruiti su misura sulle persone, basati su una conoscenza diretta delle persone singole e della famiglia.
Spesso poi ? ed è la seconda difficoltà ? gli interventi vanno a pescare i fondi là dove ci sono, nella sanità, dimenticando che invece l?intervento di cui la famiglia ha bisogno è anche quello di un?assistenza, per esempio una badante.

Quanto pesa il mancato aggiornamento dei Lea e, sette anni dopo l?approvazione della legge che li prevede, la 328/200, la mancata definizione dei Liveas?
Il non aver approvato la modifica dei Lea è segno della collettiva incapacità di darsi delle regole. La non definizione dei Liveas la vedo ancora peggio perché nel sociosanitario il budget è ancora inferiore di quello sanitario, visto che non siamo ancora abituati a considerare il supporto sociosanitario come una necessità. Questo è il segno di una difficoltà a considerare la disabilità come parte essenziale della condizione umana: tendiamo a considerare la disabilità un problema di una parte della popolazione, di una minoranza, dimenticando che nella realtà tutte le persone possono avere un problema di disabilità in qualsiasi momento della vita e dimenticando anche che l?ambiente in cui vivi, a parità di diagnosi, determina una maggiore o minore disabilità. Basti pensare alle barriere archietteoniche?

Quindi c?è un problema culturale di fondo?
Dobbiamo spostarci dall?idea che la disabilità è solo la malattia che hai e ancora di più da quella che tu sei la malattia che hai. Le persone sono ben più della malattia che hanno e in un sistema di welfare corretto io credo che le persone debbano essere parte integrante della società, senza fare della malattia o delle condizioni di salute un fattore discriminante nell?accesso ai diritti. Noi invece stiamo arrivando a questo paradosso gravissimo, per cui la malattia è un fattore descriminante. Nei gionri passati c?è stata la pesantissima polemica di Salvatore Crisafulli, cui lei accennava prima: una persona in stato vegetativo che ha fatto lo sciopero della fame per richiamare l?attenzione delle istituzioni e dei servizi sul proprio diritto di vivere e di essere assistito. Dove sono le varie associazioni Coscioni che per Welby si sono mobilitate in massa e invece per Crisafulli tacciono? Napolitano ha risposto a Welby in due giorni, Crisafulli ha digiunato per otto giorni prima che rispondesse la Turco. E per un Crisafulli che urla ci sono mille signor Rossi che non sanno come farsi sentire.

Crisafulli, dietro le rassicurazioni della Turco, ha interrotto lo sciopero della fame. Cosa ci insegna questa vicenda?
Che dare dignità alla vita è più faticoso che accettare una cultura di morte, ma un paese democratico deve dare ai cittadini pari dignità e considerarli degni di pari attenzioni a prescindere dalle loro condizioni di salute. Se invece decidiamo che per motivi economici non ci possiamo permettere questa uguale dignità, allora questo deve diventare il primo tema da discutere in campagna elettorale e in politica.

Pensa davvero che ci siamo spinti così avanti?
Quando eroghiamo i fondi per la non autosufficienza mettendoli – come è stato fatto – come ultima voce della discussione del budget, allora noi come paese non possiamo certo dire di avere una cultura di supporto della fragilità, una cultura dell?accoglienza. E se questa è la cultura che abbiamo, vuol dire che abbiamo fallito come etica, come politica, come medicina. Eppure le leggi che abbiamo disegnano un paese migliore. Occorre fare un fgrosso sforzo culturale, che io oggi non vedo né in chi propugna l?anarchia etica come il Pdl, né chi propugna il silenzio come il Pd, né in chi ritiene che il valore della vita sia un valore cattolico, come Casini. Noi siamo il paese con più volontari d?Europa e questo fa di noi un paese buono: ma lo Stato e la politica dovrebbe garantire innanzitutto che questo sia un paese giusto.


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