Famiglia

MARTIRI

di Cristina Nespoli

Stamani leggo su Avvenire che i teologi hanno riconosciuto il martirio di Mons. Oscar Romero.

Per chi ne conosce la figura sa che non era un sacerdote militante, non era un teologo della liberazione, non era socialista, anzi era piuttosto conservatore.
Seguiva solo il Vangelo e quindi aveva a cuore le istanze del suo popolo, dei poveri, e questo fu ritenuto un motivo sufficiente perché gli squadroni della morte lo uccidessero. E per noi credenti era già santo nel senso più bello che a questa parola possiamo e dobbiamo dare: colui che avendo Fede ne è reale testimone, a prescindere da chi lo riconosca in modo formale.
Rileggendo nell’occasione un passo di una sua omelia mi è venuta una riflessione sul senso del martirio e della normalità. Il dare la propria vita non è necessariamente morire ucciso, diceva Mons. Romero, dare la propria vita può essere un atto di amore continuo, di tutti i giorni della propria vita, come fa, o dovrebbe fare, una madre.

Eppure: si muore ammazzati per aver disegnato una vignetta satirica, si vive in esilio per aver scritto un libro sulla camorra, si vive sotto scorta per aver denunciato il pizzo, e la normalità non sai più bene cosa sia.

Persino la strada dell’adozione, il divenire genitori, sembra essere diventato un percorso di martirio: immagini di poter diventare famiglia per un bimbo e ti trovi in vicende di portata internazionale dove tu sei la rotellina di un ingranaggio che rischia di stritolare tutto e tutti.
Ma non c’è molta altra scelta se non vivere con la consapevolezza che scegliere il bene ha percorsi difficili: scegliere il bene esige qualcosa di più, è il male che è banale.

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