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Martini, profeta di inquietudine, maestro costruttore di ponti

di Sergio Segio

«Mettersi in mezzo e sarà pace», disse il Cardinal Martini, invitando ciascuno a guardare anche al dolore dell’altro e non solo al proprio. Si riferiva all’eterno conflitto israelo-palestinese, lui che aveva significativamente scelto, dopo Milano, di abitare a Gerusalemme.
Ma quella sua filosofia ed esortazione voleva avere, e ha tuttora, una validità generale.
L’ha avuta pure negli anni Settanta-Ottanta, quando il Cardinale scelse e accettò di “mettersi in mezzo” tra un movimento crescente di militanti che ripensavano la propria storia e volevano abbandonare la strada della lotta armata e uno Stato arroccato in una posizione di fermezza e “irriducibilità, per certi versi speculare a quella delle BR.
Erano i primi anni Ottanta del secolo scorso.
I magistrati che avevano gestito l’emergenza antiterrorismo, avendone ricevuta una delega in bianco dal potere politico, rifiutavano ogni percorso di fuoriuscita dalle armi che non fosse quello della delazione e della collaborazione giudiziaria. Addirittura attraverso forme di pressioni indebite sul potere politico, come il documento segreto inviato al governo e poi svelato da “il manifesto” il 26 maggio 1984 con un eloquente titolo: La loggia dei trentasei. Estremamente riservato. Il documento dei magistrati antiterrorismo tifosi di leggi speciali, pentiti e supercarceri, e presentato dal quotidiano in questo modo: «Il documento che qui pubblichiamo è straordinario. È, forse, il sintomo più clamoroso del cancro che fiorisce sul corpo della Prima Repubblica. È la prova che la P2 laureata esiste perché in tutte le istituzioni c’è una metastasi di P2 senza nome. Il caso è clamoroso. 36 magistrati che si arrogano il diritto di riunirsi periodicamente e inviare alle massime autorità dello Stato i loro “suggerimenti” sull’uso della giustizia. Tutto questo è già eversivo di per sé: stamani i carabinieri dovrebbero bussare alla porta di questi 36 supercittadini e il magistrato escluso dalla lobby dovrebbe chiedere conto e ragione di questa associazione».
I suggerimenti allora segretamente inviati dai 36 magistrati al governo e ai responsabili della giustizia e delle carceri erano, esplicitamente, la richiesta al governo di interrompere il percorso della dissociazione aperto dagli ex militanti di Prima Linea, che avevano trovato la disponibilità all’interlocuzione dell’allora direttore generale delle carceri Nicolò Amato, ex pubblico ministero, che veniva perciò ora attaccato dai suoi ex colleghi; i quali, in definitiva, chiedevano alle autorità politiche e istituzionali di non revocare in alcuna parte l’impianto giuridico e carcerario dell’emergenza antiterrorismo e il trattamento duro nelle carceri speciali.
Intanto, in quelle carceri speciali si moriva, così come ancora nelle strade, nei colpi di coda di una lotta armata sconfitta ma ancora pericolosa.

Il mese sussessivo, nel giugno 1984, la consegna simbolica di un quantitativo di armi ancora in possesso dei militanti in quel momento processati a Milano nel procedimento contro Prima Linea e i CoCoRi, fu il nostro modo di dire che la spirale della violenza si poteva interrompere, purché si sapesse e volesse cominciare un confronto e aprire un dialogo. Accompagnammo il gesto con un documento, che ne spiegava gli intendimenti, firmato da molti degli imputati e che allegammo agli atti del processo. Nelle Aule in quel momento non era possibile per la chiusura della magistratura dell’emergenza. Occorreva farlo nella società, tra le forze vive e disponibili della città.
Il Cardinale Martini, al solito costruttore di ponti, accettò di “mettersi in mezzo”. Contribuendo così a dare un’indispensabile sponda a quel fragile movimento carcerario, che i magistrati volevano spingere alla delazione («o collaborate o morirete in galera», usavano ripetere a quel tempo negli interrogatori, tertium non datur) e i brigatisti volevano zittire con i “boia della carceri”, che uccidevano chiunque fosse sospetto di resa o collaborazione, in ciò facilitati dalla promiscuità tra gli uni e gli altri, cinicamente favorita da alcuni dei responsabili delle destinazioni carcerarie.
Quel gesto generoso di Martini sicuramente accelerò la fine della lotta armata e contribuì a dare speranza e un nuovo progetto a migliaia di giovani incarcerati.

La vicinanza alle carceri è stata una costante per il Cardinale. Espressa con scelte impopolari, ma soprattutto attraverso l’elaborazione di un corpus di pensiero autenticamente radicale e perfettamente omogeneo al messaggio evangelico e, perciò, per lo più rimosso e ignorato. Bastino qui alcune sue brevi citazioni:
«Il cristiano non potrà mai giustificare il carcere, se non come momento di arresto di una grande violenza».
«Chi è stato offeso nei suoi beni, nei suoi affetti, nella vita dei suoi cari non riceve dalla detenzione dell’offensore un risarcimento reale per quanto ha sofferto».
«Nella colpa c’è già la pena […] Nella colpa c’è insita una sconfitta, un fallimento, e dunque sofferenza, umiliazione».
«Occorre pensare ad alternative alla pena, non solo a pene alternative».
In termini laici ciò si traduce in quanto prescritto dall’articolo 27 della Costituzione: la pena deve tendere a cambiare e reinserire, non ad avvilire o tanto meno a incapacitare il reo.
Come sappiamo e vediamo, le carceri sono da sempre assai distanti dall’ideale evangelico e dalle prescrizioni costituzionali, divenendo spesso una forma di tortura, senza che ciò crei scandalo né attiva resipiscenza in chi avrebbe il potere e il dovere di cambiare questa situazione, illegale e criminogena, vale a dire il governo e il parlamento.
Ecco perciò, assieme all’espressione del dolore per la scomparsa di Martini, voglio fare un invito ed esprimere un auspicio: che nelle carceri, da parte dei reclusi, e all’esterno, da parte degli ex militanti della lotta armata che hanno terminato la propria condanna, si effettui un momento di silenzio e affettuoso ricordo in memoria di un grande e coraggioso Cardinale, capace di costruire ponti e promuovere riconciliazione.

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