Cultura

Martinelli: «La clausura fa bene al teatro»

Il regista e fondatore delle Albe di Ravenna spiega la scelta di aver rinunciato alla presenza sui social. «In compagnia siamo in 40, abbiamo condiviso tutti l’idea di sfruttare questo tempo per fermarci a pensare, leggere, approfondire le nostre esperienze. Abbiamo fatto i conti e per qualche mese reggiamo. I social sono surrogati deludenti. Senza corpi non c’è teatro».

di Giuseppe Frangi

Niente teatro virtuale; niente surrogati via social per tener vivo il palcoscenico. La scelta di Marco Martinelli, Ermanna Montanari e di chi lavora con loro al Teatro delle Albe di Ravenna è stata diversa e precisa: usare questo tempo come di un tempo monacale nel quale approfondire, leggere, riflettere e anche generare idee per il futuro. Il teatro della Albe è delle realtà più vive della scena italiana. In particolare la compagnia è reduce da un percorso dantesco di grande originalità e anche impegno. Hanno rappresentato l’Inferno nel 2017 e il Purgatorio nel 2019 coinvolgendo centinaia di persone negli spettacoli, che sono stati spettacoli itineranti per le strade di Ravenna e anche di Matera. Un teatro aperto, contagioso, che ha saputo diventare un fatto per la città. Il 2021 sarà la volta del Paradiso, in occasione del centenario dantesco, ma l’ambizione e il sogno è quello di rimettere in scena anche le altre due cantiche con un’operazione destinata a mobilitare tutta Ravenna. «Abbiamo avuto sempre un’adesione oltre le attese da parte delle persone che hanno accettato di essere parte dello spettacolo. Per questo possiamo reggere la sfida di portare in scena tutta la Divina Commedia in un giorno. Abbiamo in programma una tournée dantesca partirà nell’ottobre prossimo e continuerà per tutto il 2021, anno del settimo centenario dantesco, e – virus permettendo – ci porterà, con il patrocinio del MInistero degli Esteri, in India in Argentina negli Stati Uniti in Kenia (a Nairobi) in Romania e in Serbia.», racconta Marco Martinelli.

Torniamo ad oggi. Perché questa scelta di un periodo di silenzio?

«Anche se è arrivato perché costretti, in realtà obbedisce ad una fisiologia che non si rispetta mai. Come per la terra a rotazione arriva l’anno in cui è necessario farla riposare perché diventi più fertile, così dovrebbe essere per le persone, in particolare per chi segue strade come la nostra, che hanno sempre bisogno di un momento di “ricreazione”. Così ci siamo dato questo periodo che abbiamo definito di convento, ciascuno a casa propria. Naturalmente la speranza è che non duri troppo».

Una pausa come questa non pregiudica il destino di un teatro come il vostro?

«Abbiamo fatto i nostri calcoli, condividendo tutti la situazione. Sappiamo che qualche mese possiamo reggere così. Abbiamo sempre fatto una scelta di assegnare una paga uguale per tutti: in un certo senso siamo davvero tutti sulla stessa barca e condividiamo il percorso. Ci si sente periodicamente tra di noi e naturalmente riuniamo via Skype il nostro cda per tenere presidiata la situazione. Questa condivisione aiuta ad attraversare momenti così e a viverli come opportunità».

Come sono le vostre giornate?

«Leggiamo molto. In particolare con Ermanna ho questa consuetudine: io leggo ad altra voce e intanto lei annota pensieri ed osservazioni. Poi mi fermo e li approfondiamo. In fondo la lettuarad alta voce è il metodo che hanno sempre seguito i monaci: noi lo seguiamo. In questo momento stiamo alternando tre testi, uno di Giuseppe Fornari, un allievo di René Girard su Dioniso e cristianesimo, la Laudato si’ di papa Francesco e un libro di Luca Doninelli, Tre lezioni sul romanzo. Sono tutte letture che non hanno come obiettivo quello di affinare dei progetti. Però aiutano a generare pensieri che poi attivano progetti e idee nuove. Come mi piace dire, attivano percorsi di magnifica instabilità che ci porta a percorrere terreni inespolorati».

Non è un paradosso essere “compagnia”, nel senso che voi vi definite compagnia teatrale, ma costringervi ad un simile isolamento?

«Non lo è perché seppur isolati stiamo vivendo questo momento come un percorso condiviso e quindi comune. Siamo nelle nostre “celle” in clausura, ma facciamo parte dello stesso convento, per continuare la metafora dei monaci. E poi realisticamente non c’era molte alternative, se si devono seguire le direttive del governo».

Ad una presenza sui social proprio non avete pensato?

«Sinceramente no. I social sono dei surrogati inadeguati: il teatro è una questione di corpi, di vicinanza tra corpi, non può uscire da quella modalità. Se oggi questo non è possibile, meglio fermarsi e sfruttare questo tempo di “distanze”».

Il teatro che uscirà da questa crisi sarà un teatro diverso?

«Penso che debba essere necessariamente un teatro che vada al di là del gioco professionisti. spettatori. Avrà a che fare con una società ancor più frammentata e segnata da esperienze di profonda solitudine e con angosce profonde. Per questo il teatro è chiamato a dar spazio a forme comunitarie nuove, in cui ci si riconosca e non si sia solo chiamati ad assistere. In questo la lunga storia della chiesa ci è di insegnamento, perché cos’altro la liturgia è una forma grandiosa di quello che anche il teatro laicamente dovrebbe realizzare. In fondo lo diceva anche Mejerchol’d che certo cattolico non era».

E la società del dopo virus sarà una società diversa?

«Lo spero. Anche se noto che le parole di papa Francesco restano inascoltate. Ho letto la notizia in questi giorni che è stato investito un miliardo di euro per nuovi sottomarini per la Marina, che verranno realizzati da Fincantieri. Non si è capita la lezione che le risorse se ci sono vanno investite in sanità e scuola. Poi papa Francesco ci dice un’altra cosa importante che facciamo fatica a recepire».

Quale?

«Che nel mondo ci sono tante altre “pestilenze” e non possiamo certo pensare che risolta la nostra sia risolto tutto. Il nostro problema non deve cancellare quel che succede altrove, a cominciare dalla Siria. Usciremo diversi se avremo questo coraggio di non guardare solo a noi stessi».

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