Quando ho ascoltato il disco mi sono venute subito in mente due immagini. La prima leggendo il titolo: ho pensato immediatamente a “Io se fossi Dio” di Giorgio Gaber. Quando, riferendosi al terrorismo canta: «Io come uomo, come sono e fui, ho parlato di noi comuni mortali. Quegli altri non li capisco, mi spaventano, non mi sembrano uguali. Di loro posso dire solamente che dalle masse sono riusciti ad ottenere lo stupido pietismo per il carabiniere. Di loro posso dire solamente che mi hanno tolto il gusto di essere incazzato personalmente…». Parole che potrebbero tranquillamente stare dentro a questo “Noi, Loro, Gli Altri”. La seconda e quando Roberto Benigni su Rai uno disse circa la Divina Commedia: «Dante ci fa credere a quello che dice perché ci tratta male. Perché non ci dice che siamo meravigliosi. No. Ci dice che si fa schifo. Siccome dice le nostre cose più luride e basse quando ci dice quelle alte gli crediamo». Questa è per me la stessa chiave interpretativa del disco di Marracash. È un disco denso, pesante, pregno. Un’uscita arrivata senza promo, da un giorno con l’altro. Anche questo aspetto concorre alla credibilità del disco: mentre intorno è tutto un fiorire di merch, di contdown, di anticipazioni e di faraoniche campagne markeiting, Marracash semplicemente rilascia il disco. Addirittura buona parte dei featuring (Salmo, Elodie, Mahmood, Joan Thiele e Fabri Fibra) non sono neanche segnati.
Un’uscita rischiosa perché viene dopo un capolavoro come “Persona”. Uno di quei dischi che bastano a giustificare una carriera. Un disco altissimo. Eppure Marra torna con una perla ancora più lucente, un disco senza appello. Una di quelle opere di cui parlare diventa difficile.
Un lavoro che si differenzia profondamente da Persona. L’album precedente era una proposta dai suoni old school, molto anni ’90, con un flow e un’attitudine profondamente moderne. Oggi Marra esce definitivamente dal rap. Non è un disco hip hop “Noi, Loro, Gli altri”. È cantautorato, puro e semplice. Certo in forma rap. Ma oggi il fatto che Fabio rappi è solo squisitamente un dato tecnico.
Qualcosa che si capisce bene già dalle basi che produce per lui Marz in cui emergono riferimenti davvero inaspettati. C'è l’aria di “Vesti la giubba” del librettista e compositore napoletano Ruggero Leoncavallo dell'opera Pagliacci cantata da Pavarotti, diversi campionamenti di Guru Josh e “Angeli” di Vasco Rossi. Tutti riferimenti inconsueti per un artista hip hop. C'è la forma canzone che, come ha sottolineato giustamente Ernia su ESSE Magazine, è stata stravolta uscendo dalla tradizionale sequenza intro – strofa – ritornello – strofa – outro.
Il punto però di tutto sono, come sempre i testi. Marracash è, inequivocabilmente, il più dotato dei rapper italiani. Il punto di riferimento di tutta la scena, passata, presente e futura. Qualcosa che Fabio aveva in qualche modo anticipato, e chi ascolta il rap da più di qualche anno si ricorda bene quel “Dice vendi ai dodicenni che quella è l'età. Metti un po' di trucco in faccia che crea novità. Gli ho risposto sono vero e serio. Ecco la novità e in più sono un mezzo genio, ma nessuno lo sa”, di Badabum Cha Cha.
Quello che succede in “Noi, Loro, Gli altri” è proprio questo ed è disarmante. È vero e serio. Marra si è spogliato di tutto. Non c’è alcuna traccia delle tematiche solite del rap game. La prima cosa che fa Fabio con questo disco è mettersi a nudo. Parlare di tutto quello che ha dentro, in profondità. Fa qualcosa che sarebbe difficile da fare con sincerità con un amico. O con una donna. Raccontarsi senza filtri, senza finzioni. Avere il coraggio di dire la verità su di sé: la verità sulle proprie paure, sui propri errori, sulle proprie debolezze e sulla propria povertà. Senza però usarlo strumentalmente per dare di sé un’immagine “vincente” da bello e dannato. No, Marracash ne esce vero, reale, con tutta la sua miseria. Di una credibilità abbacinante. Ascoltarlo ti fa riconoscere in quella miseria. Ti fa vergognare. Ma anche sentire meno solo. E poi? E poi Marra sposta lo sguardo da Noi a Loro, e agli Altri. Alla società. E quando comincia a bombardare non c’è scampo. È un po’ come nella sfida finale di 8Mile quando Rubbit/Eminem rappa per primo e racconta tutta la verità su di sé per anticipare e togliere argomenti a Papa Doc. Quando Fabio toglie il velo da un dibattito pubblico fatto di ipocrisie, convenienze e finzioni (ogni riferimento a Fedez e Maneskin è voluto e chiaro), è un tornado cui non c’è modo di replicare. In mezzo citazioni di ogni livello. Si va dalle serie tv, ai fumetti passando per La coscienza di Zeno a La Dolce Vita di Fellini, fino alla cronaca. Tutto viene incasellato e cesellato all’interno di questa seduta di psicoterapia collettiva.
Marracash è diventato cantautore, dicevo. E lo intendo nel senso più specifico del termine: parlo di quel modo e quella attitudine di fare musica degli anni ’70. Perché il disco è un’opera che ha principalmente un valore e un cuore sociale e politico. Parla di noi, che siamo loro o gli altri. Ma per davvero. Si è passati da Persona a persone (quello che potrebbe essere un altro titolo di questo lavoro) perché «tutto è inclusivo a parte i posti esclusivi. Oggi che lottiamo così tanto per difendere le nostre identità, abbiamo perso di vista quella collettiva. L’abbiamo frammentata».
È un disco che, una volta ascoltato, lascia il segno. Ci cambia. Come tutte le opere d’arte.
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