Biografie
Marketing, cooperazione internazionale e Parkinson: le tre vite di Giangi Milesi
L'ex presidente del Cesvi si racconta: «Oggi la scrittura è la mia resistenza». Una narrazione che fa rima con libertà: quella di dare piena voce alla creatività e quella di mettere nero su bianco anche il materiale che negli anni ha archiviato in attesa di diventare pubblico
Il mestiere di vivere anzitutto come lascito alla figlia Giovanna per proteggerla «dalla perdita di esperienza per mancata narrazione». Il mestiere del lavoro come missione di un «professionista della ribellione» come lo ha definito Claudio Bisio. Sono tante le vite di Giangi Milesi (nella foto di apertura) che ci regala nel suo ultimo libro Raccontare è il mio mestiere (ed. Scatole Parlanti, 18 euro). Tutte hanno dato frutto, seguendo la linfa della passione, dell’etica e appunto della ribellione: «Famiglia, scuola, chiesa, paese tutto mi istigava a protestare e a sventolare la bandiera della rivolta».
Chi opera nel non profit non può non conoscere Giangi Milesi, impegnato da oltre 30 anni a promuovere cause sociali, attraverso una comunicazione che potremmo definire “umana”. Ha cominciato a operare nel Terzo settore negli anni Novanta da volontario, mentre ancora era consulente in azienda. Ed è riuscito a portare nel non profit le migliori esperienze delle relazioni pubbliche applicandole al Cesvi di cui è diventato presidente, dando il là ad anni gloriosi che ripercorre nel libro, a favore di chi oggi lavora in questo ambito: «La mia esperienza nel marketing è stata utile su vari fronti, per esempio lavorare sul bilancio di missione per adempiere a un dovere di trasparenza e ancor più per coinvolgere gli stakeholder e dotare l’organizzazione di uno strumento potente di miglioramento» tanto da arrivare a vincere tre Oscar di Bilancio.
La ribellione (mai violenta) di Milesi lo spinge a innovare con creatività e in grande anticipo i rapporti con il mondo profit: per esempio collaborando alla fondazione della Fabbrica del Sorriso e dello Zozzoni Day per tenere viva la prevenzione dell’Hiv in Africa e in Italia; lavorando all’emissione del primo social bond in Italia nel 1998; organizzando il primo referendum fra i dipendenti per la scelta aziendale della causa sociale da sostenere; partecipando al lancio con Omnitel-Vodafone del Sms Solidale, operazione premiata con Sodalitas Social Award nel 2003.
Eppure Milesi ha un rimpianto: quello di non aver insistito a sufficienza nell’avversare le logiche di potere, affinché le organizzazioni non profit fossero a loro volta scuole di spirito comunitario per le imprese, «perché la naturale competizione sia assoggettata alla cooperazione, all’emulazione delle buone pratiche: tutto il contrario del campanilismo e della “sindrome da palio di Siena”. Succede quando le contrade, invece di migliorare le proprie performance, puntano su azzoppare i cavalli altrui».
Oggi Giangi Milesi è vicepresidente di Pubblicità Progresso e presidente della Confederazione Parkinson Italia. Milesi ha il Parkinson che gli è stato diagnosticato nel 2016, quando aveva 63 anni. Da allora ha voluto «dedicarsi a socializzare le esperienze positive di chi ha saputo gestire la sofferenza», come racconta lui stesso nelle foto-storie della straordinaria mostra parlante “Non chiamatemi morbo”. Con la Confederazione Parkinson Italia lavora per dare risposta concreta alle domande che bene ha riassunto Maura la Greca in un post Linkedin. Lei è la responsabile fundraising, marketing e comunicazione di Antoniano- Zecchino D’Oro e ha lavorato nella sede italiana del Cesvi accanto a Giangi: «In questo lungo e intenso racconto – che chiede attenzione ad ogni riga per non perdersi tutto ciò che sta nascosto tra pause e parole – l’autore unisce i puntini di un percorso di vita e di lavoro senza mai trarne esplicitamente insegnamenti e significati. Questa parte tocca farla a chi legge: cosa c’entra “ol Salvo” – che da contadino colse ogni occasione per farsi piccolo imprenditore – con la conquista del West e con l’audacia con cui Giangi Milesi ha spinto all’innovazione un Terzo settore autoreferenziale e per lo più privo di competenze? E ancora: come si lega la consapevolezza del voler dare futuro alle narrazioni con la leadership e le scelte di governance?». C’è ancora molto da fare, perché persiste ancora un modo non professionale di accostarsi al non profit. Perciò anche oggi Giangi opera con la consapevolezza «che ci ha tramandato il filosofo e scrittore cinese del VI secolo C. Lao Tsé: “Il capo eccellente ottiene risultati con pochissimo movimento, insegna non attraverso molte parole, ma attraverso l’esempio. Si tiene informato di tutto. Ma non interferisce quasi per niente. La sua presenza assicura che le cose siano fatte meglio che se lui non ci fosse, ma quando i suoi uomini hanno successo egli non se ne prende il merito e poiché non se ne prende il merito, il merito non lo abbandona mai”». Ecco chi è il leader.
Giangi ha scritto Raccontare è il mio mestiere anche per far aumentare «le chance di trovare le parole che mi sono scappate» nella lunga convivenza con la malattia che combatte, senza però farci la guerra. Non è un paradosso, piuttosto un ossimoro: «Noi la chiamiamo “resistenza” ossia viviamo senza farci piegare con l’aiuto, oltre che delle medicine, dell’attività fisica, della dieta e degli interessi. Per me uno di questi è la scrittura». Raccontare, inseguendo le parole che a volte mancano, inaspettatamente fa esplodere la creatività.
La narrazione in questa prospettiva infatti fa rima con la libertà: quella di usare la parola per andare in profondità; quella di dare piena voce alla creatività e quella di mettere nero su bianco anche il materiale che negli anni ha archiviato in attesa di diventare pubblico. Per esempio il punto di vista sul Sessantotto che, quando ci provò nel 1993, non venne pubblicato, perché considerato controcorrente.
Come suggerisce Lella Costa nella sua prefazione al libro, «scrivere un’autobiografia può sembrare un atto di narcisismo, ma è anche un gesto di generosità». Le fa eco Andrea Farinet, presidente di Pubblicità Progresso, con la sua seconda prefazione in cui scrive: «Tu però con questo libro ci lasci una testimonianza molto importante: l’importanza di essere gli altri. Noi siamo gli altri. Noi siamo stati gli altri. Noi saremo gli altri. Una testimonianza che fa trasparire un anelito per una nuova socialità. Inguaribili utopisti? Forse questa è la forma di inguaribilità da cui non vorrei mai guarire». Ma le parole che meglio descrivono quest’opera sono ancora quelle di Maura La Greca, che ci introduce alla lettura con cinque pagine intense e che potrebbero essere l’inizio di un saggio sul Terzo settore oggi: «Questo libro è per chi si pone domande, per chi cerca ogni giorno una strada più giusta, per chi vuole trovare un senso alla propria storia anche se “un senso non ce l’ha”, per chi ha intuito che questa ricerca è difficile, dura una vita intera e non prevede scorciatoie o bignamini salvavita e carriera». Un libro che è «come una grande tavolata in una piacevole domenica autunnale, con te, Giovanna e tua moglie Susi e decine di ospiti che apparivano con i tuoi racconti, dove i racconti si mischiano alle riflessioni, alle emozioni, agli spunti, a vere e proprie ispirazioni da cogliere e a dialoghi con tutti e tutte le persone di cui parli» scrive l’amico Daniele Panzeri, oggi Senior Programme Support and Liaison -M&D Coordinator, che in Cesvi è stato Country Director in Myanmar.
Infine il miglior invito alla lettura lo ha scritto proprio Giangi rispondendo al suggerimento di sua figlia Giovanna: «Alzare lo sguardo. Facile a dirsi, ma poi la nostra attenzione va a dove mettiamo i piedi. Al buio dovremmo fermarci a guardare le stelle e le comete; entrambi luci-guida, da sempre. E dovremmo ricordarci che il Pianeta di notte ci fornisce la migliore mappa dell’antropizzazione. Di giorno il cielo è altrettanto ricco. Dovremmo osservarlo per sorprenderci ed emozionarci, invece lo guardiamo solo per decidere come uscire di casa, se prendere l’ombrello o no. Nei Pesi poveri la relazione con il cielo è più importante. Se a un contadino o a un pastore africano mostri la carta geografica che ti sei comprata prima di partire, facilmente non riconoscerà i luoghi dove vive perché non capirà i simboli convenzionali creati in Europa. Quando studiavamo geografia sugli atlanti trovavamo dei deserti verdissimi perché la loro quota era quella della Pianura Padana e foreste grigie perché in alta quota.
Viceversa, se allo stesso contadino mostri una foto satellitare non si sorprenderà talmente é abituato a distinguere le luci del cielo. Perciò, saprà descrivere con esattezza quello che vi sia intorno, come fosse abituato a osservarlo dal cielo. Incredibile, no?».
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