Ora che il riflesso condizionato della protesta a difesa della libertà d’informazione ha conquistato anche le passerelle, grazie alla coppia Gattinoni-Mariotto e alla loro sposa in bavaglio, ora che ormai qualche giorno ci divide dalla protesta di giornalisti ed editori e derubricate tutte le retoriche (ed antiretoriche) al riguardo, possiamo permetterci qualche ragionamento.Giustamente, Giuseppe Frangi nell’editoriale del numero in edicola (gli abbonati possono leggerlo qui) pone una questione chiave: nessuna battaglia per la libertà di informazione può evitare la domanda capitale, libertà per che informazione? Scrive Frangi che “l’informazione può essere un’alleata della realtà. Può aiutare a comprenderla, a migliorarla; può difenderla quando viene messa sotto attacco. Può nutrirsene, per offrire ai lettori un prodotto migliore, più utile e più costruttivo”. Già ma può prodursi anche prescindendo dalla realtà, anzi ferendola, manipolandola, l’informazione può aiutare a costruire ma anche impedirla.
In questi giorni (alla ricerca di pensieri non retorici) ho letto un libretto edito da una piccola casa editrice (Piano B edizioni) che raccoglie scritti inediti di Mark Twain, Libertà di stampa, Fortuna e Opinioni di granturco, che aiuta, appunto ad approfondire la questione. Mark Twain, al secolo Samuel Langhorne Clemens (1835-1910), visse gli anni della costruzione dell’opinione pubblica americana e il cuore di questa raccolta ruota tutto intorno alla virtù e alla maledizione del potere dell’informazione: «L’ammaestramento fa cose meravigliose. Non c’è nulla che l’addestramento non possa fare. Nulla è al di sopra o al di sotto della sua portata. Può trasformare i cattivi princìpi in buoni, e i buoni in cattivi; può annientare ogni principio, e poi ricrearlo». Perciò Twain invitava a non conformarsi all’opinione della maggioranza così comoda e rassicurante: «Conformarci è nella nostra natura. È una forza alla quale pochi riescono a resistere. E il risultato è il conformismo».
Twain sapeva benissimo del ruolo che la stampa aveva nell’indurre l’opinione pubblica a riflessi condizionati, “conformi”, spesso distruttivi, perciò se ne uscì con questo pensiero molto provocatorio: «Esistono leggi per proteggere la libertà di stampa, ma nessuna che faccia davvero qualcosa per proteggere le persone dalla stampa. Una causa per diffamazione porta semplicemente il querelante davanti a un grande tribunale composto proprio dalla stampa, in modo che lì venga processato ancor prima di essere giudicato dalla legge, e dove sarà impietosamente vituperato e messo alla gogna».
Oggi, evidentemente, siamo andati molto più in là nei meccanismi di addestramento, sempre più pervasivi e diffusi, perciò quando si combatte per la libertà di informazione val sempre la pena capire bene cosa essa significhi. Senza “riflessi condizionati”, soprattutto se di categoria.
È questo il motivo per cui ho fatto personalmente spallucce agli appelli di “categoria”, così aureferenziali, indirizzatti verso la perpetuazione di privilegi di una categoria già morta, senza un pensiero vero e serio indirizzato a se stessi, alla realtà e a chi la popola.
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