Famiglia

Marisela senza paura

Da sette anni combatte contro l'omertà e le connivenze della polizia a Ciudad Juarez, in Messico, dove in 15 anni sono state uccise mille giovani donne. Ecco la sua storia e la sua battaglia.

di Daniele Biella

Si chiamavano Rosa, Marta, Cruz, erano messicane della città di Ciudad Juarez. Avevano 12, 15 e 18 anni. Erano studentesse, e già lavoratrici, perché di soldi in casa non ce n’erano. Un giorno, a poche settimane di distanza l’una dall’altra, sono state rapite. Nel buio della notte, di ritorno dal lavoro. Da ignoti. Che le hanno seviziate, violate e uccise, prima di nascondere i loro corpi nell’anonima campagna circostante. Ma la cosa più sconvolgente è che la sorte di Rosa, Marta e Cruz è toccata, dal 1993 a oggi, a mille giovani donne. Seicento delle quali, sono rimaste desaparecidas: il loro corpo non è mai stato rinvenuto. Tutte, o quasi, impunite: le condanne, finora, si contano sulle dita di una mano. Un autista di un bus notturno, un nullafacente, un ex poliziotto. E almeno un capro espiatorio innocente: un operaio che, dopo tre anni di carcere, è stato rilasciato all’indomani dell’arresto dei due poliziotti che gli avevano estorto la confessione di un omicidio mai commesso. La giustizia messicana, quando non è corrotta, latita.

C’è però qualcuno che, con sforzi immani, prova a far luce in questo inferno che, non a caso, ha preso il nome di “femminicidio”: è una donna, si chiama Marisela Ortiz Rivera, ha 50 anni e vive da sempre a Ciudad Juarez. È lei che, più di tutti, sta portando avanti da sette anni una battaglia che non ha eguali in termini di dedizione alla causa e coraggio civile. Una battaglia personale e come fondatrice dell’associazione di donne Nuestras hijas de regreso a casa (“Le nostre figlie tornano a casa”), il primo ente capace di squarciare il muro dell’omertà cittadina. Era il febbraio 2001 quando, per lei, iniziò tutto: «Insegnavo alle superiori», racconta Ortiz, «e sapevo che da qualche tempo succedeva qualcosa di mostruoso alle ragazzine della città. Ma solo quando capitò alla 17enne Alejandra, la mia alunna migliore, aprii gli occhi e decisi che non sarei stata più a guardare».

Da quel momento, fino ad oggi, la pasionaria messicana non ha più smesso di denunciare i crimini, indire manifestazioni, girare mezzo mondo alla ricerca di qualcuno disposto ad ascoltarla. Nel frattempo, le uccisioni continuavano. Tutte o quasi impunite. E continuano tuttora: «È una strage silenziosa che, a 15 anni dal primo caso, ha contato almeno mille vittime, quasi tutte tra i 13 e i 22 anni», ribadisce Ortiz. Ragazzine spesso rapite all’uscita dal lavoro notturno («qui, spinte dalla miseria, molte famiglie mandano al lavoro i figli poco più che bambini») nelle maquiladoras, gigantesche catene di montaggio poste appena fuori città, laddove inizia la frontiera con gli Stati Uniti.

«Chiederò giustizia fino alla fine, anche a costo di perdere la vita», dice senza mezzi termini la 50enne messicana. Molti si sono avvicinati a lei e alla sua associazione di donne in prima linea, nel frattempo. L’ultimo riconoscimento del suo impegno è stato, a inizio dicembre 2008, l’assegnazione alla donna della cittadinanza onoraria di Torino. Anche il Parlamento europeo, grazie alla sua testimonianza, ha potuto conoscere da vicino la situazione e, con una risoluzione datata 11 ottobre 2007, ha intimato al Governo federale del Messico di muoversi per porre fine al femminicidio.

Amnesty international, inoltre, da tempo l’ha adottata come persona speciale da salvaguardare, e a inizio ottobre 2008 proprio la sezione italiana di Ai ha ottenuto, facendo pressione alle autorità messicane, che a Ortiz fosse assegnata la scorta governativa. L’insegnante, infatti, riceve costantemente minacce di morte, dedicate a lei, al marito, ai due figli. «Un esempio? Dal 2005 cammino con un bastone perchè ho un piede zoppo: è il ricordo di una macchina che mi ha investita», racconta l’attivista messicana. Poi sono stata inseguita in macchina più volte, tamponata, spinta fuori strada, tutti gesti deliberati di intimidazione. Il primo agosto del 2007, inoltre, due pallottole sparato da gente con il volto coperto hanno colpito la carrozzeria della macchina mancandomi per un pelo».

Le minacce sono ulteriormente aumentate dopo il 3 ottobre 2008, quando è stato proiettato nelle maggiori città messicane, tra cui la stessa Ciudad Juarez, un crudo documentario «girato da due dei giornalisti impegnati nella causa: tutti gli altri sono corrotti dal potere: basti pensare che le poche volte che l’associazione trova spazio in televisione, viene presa di mira, e alla gente viene detto che noi diciamo bugie e roviniamo l’immagine della città».

La lotta di Ortiz e delle altre donne di Nuestras hijas de regreso a casa ha trovato spazio anche nel cinema di Hollywood, con il film Bordertown, nel cui cast Jennifer Lopez e Antonio Banderas erano due giornalisti che indagavano sul femminicidio. La fine del film, purtroppo, è simbolica: Banderas muore in un attentato, Lopez ridotta al silenzio dai poteri forti. Un silenzio che ancora oggi pervade le strade di Ciudad Juarez e che non fa altro che aumentare a dismisura l’eco del dolore dei parenti di centinaia delle giovani donne vittime di una morte orrenda. Parenti che aspettano ancora, e da troppo tempo, giustizia.

Il sito ufficiale dell’associazione “Nuestras hijas de regreso a casa”: www.mujeresdejuarez.org

Foto di Valentina Defassi/Flickr

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