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Mario Giro: «La sicurezza si crea con più cooperazione»
«Non si coopera per buonismo, si fa cooperazione per stare nel mondo in modo intelligente. Siamo pronti a rientrare a Tripoli: è evidente che assieme alla Siria, il Mediterraneo, e in particolare la Tunisia, il Libano la Libia, costituisce una priorità assoluta. Non dimentichiamo che l’Italia è stato il primo paese ad aver creato corridoi umanitari per i profughi siriani». L'intervista al viceministro con delega allo Sviluppo
Fare sistema, produrre un pensiero comune, mandare in soffitta le battaglie da retroguardia e, soprattutto, pensare a proiettare l’Italia nel mondo attraverso la cooperazione internazionale, uno strumento cruciale della nostra politica estera per lo sviluppo e la sicurezza dei paesi del Sud del mondo, in particolare l’Africa, ma anche dell’Italia. Ecco in sintesi la visione del nuovo Vice ministro degli Esteri con delega alla cooperazione internazionale, Mario Giro sulle sfide che attendono la cooperazione italiana e che ha deciso di condivedere in questa intervista rilasciata a Vita.it
Oggi l’attualità è dettata dall’emergenza migrazioni, la Nato pronta a entrare in guerra in Libia, il conflitto siriano, la minaccia terroristica dell’IS e delle sue succursali africane. Di fronte a questi scenari, che ruolo spetta alla cooperazione italiana?
La cooperazione italiana è la proiezione internazionale del paese e di tutte le sue politiche, da quella estera a quelle economiche, passando per la cultura, il tutto in linea con lo spirito della nuova legge 125. Entrando nello specifico, sulla Libia il governo è molto impegnato affinché il recente accordo fimato in Marocco venga implementato. Sarebbe stato opportuno intervenire prima, e debbo dire che l’Italia lo ha fatto contribuendo con successo all’embargo sulle armi, in particolare quelle pesanti, che in Siria hanno avuto effetti devastanti sulle città. Seppur tra mille difficoltà, oggi in Libia si può vivere. Certo lo Stato va ricostruito, e ci vorrà del tempo. Non appena il governo si insidierà a Tripoli, la cooperazione riprenderà immediatamente tutte le attività sinora sospese, che sono poi tantissime e non si limitano agli aiuti pubblici allo sviluppo. Penso ad esempio al contributo italiano per il rafforzamento delle capacità delle istituzioni libiche. E’ una scommessa che ci consentirà di guardare al futuro con un minimo di speranza.
La delega al viceministro e ai sottosegretari non è ancora stata formalizzata, anche se la figura di un viceministro è stabilita dalla legge 125 per la delega alla cooperazione allo sviluppo. Il precedente viceministro Pistelli aveva anche la delega per l’Africa. Pensa che potrebbe essere riconfermata questa scelta da parte del ministro Gentiloni?
Penso di sì, l’Africa e la cooperazione allo sviluppo sono sempre andate insieme, mi sembra ragionevole proseguire questo percorso.
E con l’America Latina, un continente che le sta molto a cuore e di cui ha la delega, come la mettiamo?
Non si può fare tutto, oggi ho la cooperazione internazionale, preferisco concentrarmi su questa delega. A decidere sarà il ministro Gentiloni.
A quando l’annuncio delle nuove deleghe?
E’ una questione di giorni.
Dalla Siria alla Libia, passando per l’emergenza migrazioni, quanto l’attualità influirà sulla revisione della strategia politica e la programmazione triennale della cooperazione allo sviluppo?
La programmazione può essere rivista in maniera regolare, ma se è vero che dobbiamo seguire l’attualità, è altrettanto vero che bisogna avere la pazienza di costruire sul medio e lungo periodo. Le due esigenze vanno tenute insieme. Riguardo l’attualità, è evidente che assieme alla Siria, il Mediterraneo, e in particolare la Tunisia, il Libano e ovviamente la Libia, costituisce una priorità assoluta. Sulla Siria abbiamo un pledge di 400 milioni di euro su cui ci siamo impegnati durante la Conferenza dei donatori per la crisi umanitaria siriana di inizio febbraio. Un’altra priorità è l’Africa occidentale e il Sahel, che vista la situazione in cui versa la Libia sono diventate la nostra nuova frontiera. In queste regioni il nostro intervento si concentra in tre aree: la sicurezza, la cooperazione allo sviluppo e le migrazioni. Poi non possiamo dimenticare il Corno d’Africa e il Sudan, così come il Mozambico, il Centramerica, Cuba, Myanmar, i Territori Palestinesi…
La nostra cooperazione sarà all’altezza delle sfide che l’attendono?
L’Italia è stato il primo paese ad aver creato corridoi umanitari per i profughi siriani, a cui peraltro ho dato il mio contributo prima essere nominato Vice ministro. Al di là delle singole sfide, credo in una cooperazione rapida e capace di intepretare i tempi. Ora che abbiamo l’agenzia, potremo esserlo. Certo, ci sono tematiche su cui rimarremo impegnati come l’ambiente, i diritti e la democrazia, a cui le migrazioni sono strettamente legate, in particolare nel Mediterraneo, ma anche l’agricoltura, l’educazione, la salute. Infine ci dobbiamo inventare un ruolo nuovo nel blending, con il coinvolgimento strutturato del settore privato nella cooperazione.
Infatti la legge 125 riconosce i soggetti del privato for profit come possibili enti di cooperazione internazionale. Quale deve essere il loro ruolo?
Dobbiamo essere creativi e coraggiosi, lasciando da parte i pregiudizi. Negli ultimi due anni, ho avuto modo di seguire con grande attenzione le imprese italiane all’estero, ho visto quanto fanno per la proiezione dell’Italia nel mondo e quanto possono fare nella cooperazione internazionale, collegandosi in maniera moderna con questo mondo, nello spirito della legge 125. Ci possono essere molto utili nel settore della micro-impresa, ad esempio. Nella recente tournée effettuata dal Presidente del Consiglio in Africa occidentale, ho potuto toccare con mano i benefici generati dalla nostra cooperazione per la micro-imprenditoria ghanese del settore agricolo. Ma per consentire a queste micro-imprese di diventare imprese sostenibili, abbiamo bisogno dell’expertise e del know-how del settore privato. Nel campo dell’educazione, è opportuno collegare tutto il lavoro svolto dalla cooperazione italiana nel training al mondo imprenditoriale per dare uno sbocco lavorativo ai giovani. Perché a questi giovani bisogna dare una prospettiva di futuro. Non bisogna mai dimenticare che l’emigrazione costituisce una perdita secca per i paesi da cui partono le persone.
A più riprese, Matteo Renzi ha dichiarato di voler fare dell’Africa “una priorità della politica estera italiana”. Oggi questo continente è molto corteggiato. Secondo la stampa italiana, la rinnovata attenzione dell’Italia nei confronti dell’Africa è in parte legata alla volontà del Presidente del Consiglio di ottenere un seggio al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Al di là di queste considerazioni, quali sono i passi da compiere per far sì che l’Italia faccia sistema in Africa, anche attraverso la cooperazione italiana?
La conquista di un seggio al Consiglio di sicurezza va vista in maniera prospettica. Questo seggio ci consentirà di avere più leva sui processi internazionali e di far sentire la nostra voce. In merito ai commenti che si sono letti durante il recente tour del Premier in Africa occidentale, è innanzitutto doveroso ricordare che ogni dieci anni l’Italia siede al Consiglio di sicurezza. L’ulitma volta risale proprio a dieci anni fa, la possibilità di farlo nel 2017 e 2018 viene visto dai nostri partner con grande interesse. Se mi permette, non si fa una campagna di questo genere con un viaggio in Africa a pochi mesi dal voto che si terrrà a giugno. Aggiungo: durante l’ultima Assemblea generale dell’ONU di settembre, tutti i leader africani che ho incontrato – e sono tanti – hanno ringraziato l’Italia per i rifugiati e i salvataggi effettuati nel Mare Mediterraneo. In altre parole, quello che abbiamo fatto e continuiamo a fare è molto stimato dai nostri partner africani. Infine, vorrei ricordare che mai nella storia repubblicana un Presidente del Consiglio aveva viaggiato così tanto in Africa. Questo dimostra quanto l’Africa sia diventata una nostra priorità. E’ un continente in cui abbiamo saputo costruire una buona reputazione, ma non basta, oggi è necessario avere una presenza concreta. Contrariamente al settore privato e soprattutto alle ONG, il cui lavoro è molto stimato, le nostre istituzioni hanno ignorato troppo a lungo questo continente. Oggi l’Africa è la profondità strategica dell’Europa, e quindi dell’Italia. Ecco perché è importante per la nostra cooperazione esserci, sia nell’ambito delle emergenze che nel medio-lungo periodo attraverso programmi che dobbiamo avere la pazienza di far maturare, aiuti per rafforzare la capacità degli Stati africani ad essere più democratici, alle stesse istituzioni nonché al settore della sicurezza.
L’entrata in vigore della legge 125 ha dato il via ai lavori della nuova Agenzia per la cooperazione. Sebbene sia ancora troppo presto per fare bilanci, come giudica il lavoro sin qui svolto dalla sua direttrice, Laura Frigenti?
Giudico il suo lavoro molto positivamente. Lo dimostra il fatto che, nonostante una fase di transizione estremamente complessa, le attività non si sono mai interrotte. Il passaggio senza troppi intoppi all’era della nuova cooperazione italiana va messo quindi a credito della Frigenti e di tutti gli operatori dell’Agenzia, anche grazie all’aiuto fornito dal MAECI e in particolar modo dalla nuova DGCS (Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo, ndr). Questo passaggio non era affatto scontato.
C’è un altro rischio che molti attori della cooperazione italiana temono in questa fase transitoria, e riguarda la poca chiarezza sul piano operativo del ruolo e delle competenze tra l’Agenzia e la DGCS. E’ un timore giustificato?
Il ruolo del vice ministro è quello di fare funzionare una macchina multidimensionale. Assegnare il destino della cooperazione italiana nelle soli mani dell’Agenzia, del ministero e della DGCS è un pò limitativo. Dentro il ministero ci sono altre direzioni, esistono poi altri ministeri coinvolti nella cooperazione internazionale, c’è la Cassa Depositi e Prestiti, ecc. Lo spirito della legge 125 amplia moltissimo il perimetro d’intervento della cooperazione internazionale dell’Italia, la mia intenzione è quella di far funzionare in maniera armoniosa tutto il sistema, nel rispetto dell’identità di ciascuna sua componente. Ma questo va fatto in modo mirato. Per questo servono le priorità date dalla politica, in primo luogo dalla Presidenza del Consiglio, che siano poi messe in opera senza perdersi in battaglie da retroguardia tra le amministrazioni, che fanno parte delle cattive abitudini del nostro paese. Non le accetterò.
Dai primi regolamenti emanati dall’Agenzia e approvati dal Comitato Congiunto esce secondo molte ONG la non piacevole sensazione di déjà vu, sembra cioè che si riprendano tali e quali criteri e modalità della vecchia legge 49 del 1987 senza esprimere quelle innovazioni che il Parlamento ha voluto con la nuova legge. Qualcuno ritiene anche che ci sia ancora un peso eccessivo della Dgcs che vorrebbe cambiamenti che modifichino poco o nulla. E’ riuscito a capire le possibilità di reale capacità autonoma dell’Agenzia, come il legislatore ha voluto?
Ma l’Agenzia è già autonoma! Ho un contatto diretto con le ONG, conosco quindi le loro preoccupazioni. Faremo in modo di lavorare tutti insieme in maniera armoniosa su progetti e obbiettivi. Oggi dobbiamo mandare un segnale forte al paese per dimostrare che l’Italia nel mondo c’è. Sia chiaro, non impongo niente a nessuno, ma voglio aiutare a comporre questo nuovo strumento che ci siamo dati e di cui fa parte l’Agenzia, assieme a tanti altri soggetti impegnati nella proiezione dell’Italia nel mondo.
Le linee guide adottate dal Comitato congiunto per la coperazione allo sviluppo per il riconoscimento dei soggetti non profit e le condizioni di selezione per il loro accesso ai finanziamenti hanno fatto molto discutere. La rete Link2007 sostiene che queste linee guide ripropongono “i medesimi criteri previsti dalla precedente legge per il riconoscimento dell’idoneità alle ONG”. E’ una perplessità condivisibile?
E’ stato il primo dossier che mi sono trovato sul tavolo dopo la mia nomina. Qui bisogna armonizzare due esigenze: quella della legge che allarga i soggetti della cooperazione, basti pensare alle diaspore presenti sul nostro territorio, alle Onlus, ecc; poi ci sono le esigenze delle amministrazioni che si trovano a dover gestire fondi pubblici, e quindi tutta una serie di parametri e caratteristiche per una gestione efficiente di questi fondi, che non sono nostri, ma appartengono agli italiani. Stiamo lavorando a una soluzione e penso di poter proporre una buona mediazione tra le due esigenze.
Che cosa si aspetta dal Consiglio nazionale per la cooperazione allo sviluppo?
Abbiamo bisogne di molte idee che compongano un pensiero comune. Per me la cooperazione è innanzittutto un pensiero su quello che vuole fare l’Italia nel mondo. Ma questo comporta una grande sfida per tutti noi per superare l’idea di un’Italia concentrata su se stessa, invece dobbiamo aprirci. Dopo il pensiero ci sono poi le persone e i valori che l’Italia tradizionalmente esporta nel mondo, e cioè la pace, che significa giustizia e democrazia.
Vice ministro, quali sono stati gli ostacoli che in tutti questi anni hanno impedito l’affermazione di un pensiero comune?
C’è stato un grande limite della politica, che è stata assente a livello internazionale, e in particolar modo nella cooperazione allo sviluppo, tant’è che i fondi erano stati ridotti al lumicino. Dal 2012 questi fondi sono tornati ad aumentare, solo nel 2016 avremo a disposizione 125 milioni di euro in più, 240 nel 2017 e 360 nel 2018. Il nostro obiettivo è di arrivare quarti nella classifica dei donatori del G7, quindi passare dallo 0,19% allo 0,26%. Al di là della politica e dei finanziamenti, credo che abbiamo parlato troppo poco al paese, questo almeno fino al forum della cooperazione allo sviluppo organizzata nel 2012. E’ molto importante che il paese si senta investito di questa grande responsabilità di uscire dal nostro guscio e proiettarci nel mondo.
Quale ruolo spetta ai media italiani in questa nuova sfida?
Innanzittutto voglio ringraziare media come Vita che hanno sempre parlato di queste questioni. Il loro ruolo è quello di parlarne sempre di più, sapendo che cooperare significa avere un futuro, se non lo facciamo declineremo mettendo a repentaglio la nostra sicurezza perché non andremo laddove i problemi si creano, ma aspettiamo che ci arrivino in casa. Non si coopera per buonismo, si fa cooperazione per stare nel mondo in modo intelligente.
Esistono modelli di cooperazione internazionale a cui ispirarsi?
Ci sono tanti modelli in giro a cui ci siamo ispirati, la stessa Agenzia, per quanto diversa rispetto ad altre, risponde a delle iniziative già sperimentate all’estero. Oggi preferisco però concentrarmi sulla necessità di non ripetere gli errori fatti da altri e fare la nostra strada. L’Italia ha un suo modello e una sua reputazione nel mondo, può avere una sua visione che spero possa essere condivisa dal maggior numero possibile di cittadini. Presto o tardi a tutti sarà richiesto di essere testimone di quello che accade al di fuori delle nostre frontiere che tanti invocano come una forma di difesa “dai mali e dai pericoli del mondo” che ci circondano, ma che in realtà si sono spostate. Oggi più che mai siamo chiamati a costruire ponti e andare lì dove c’è la sfida.
Tra pochi giorni i capi di Stato e di governo UE si riuniranno a Bruxelles per discutere dell’emergenza migrazioni. Alcuni Stati Membri, tra cui l’Austria e quelli nordici, hanno espresso la volontà di imporre nell’agenda il taglio degli aiuti pubblici allo sviluppo a quei paesi del Sud del mondo che non collaborano alle politiche di rimpatrio. L’Italia è pronta a dare sponda?
Questo genere di iniziative non funzionano perché non imponi niente in questo modo, altrimenti sui rimpatrii non ottieni nulla. Con i paesi partner dobbiamo negoziare una politica seria di rimpatrii, fatta nello spirito della cooperazione. E’ quello che facciamo con la Nigeria attraverso recenti accordi che non riguardano soltanto i rimpatrii, ma anche la sicurezza nell’ambito della lotta contro Boko Haram.
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