Politica

Maria Chiara Gadda: «La crisi politica vissuta in prima persona. Ecco le vere questioni»

La lettera di una deputata di Italia viva: “Quando si decide di scegliere, e non galleggiare attendendo che siano gli eventi a determinare il corso delle cose, si può anche essere soli. Penso, da quarantenne prima ancora che da parlamentare, che questo Paese non abbia mai fatto i conti fino in fondo con l’onere della scelta. Sussidiarietà o statalismo? Assistenzialismo o dignità del lavoro? Giustizia o giustizialismo? Terzo settore protagonista della vita civile ed economica o soggetto ancillare asservito alle politiche pubbliche?»

di Redazione

Caro direttore, le numerose battaglie che insieme abbiamo portato avanti in questi anni, ciascuno secondo il proprio ruolo, mi spingono a scriverle le ragioni della mia posizione rispetto all’attuale crisi di governo.

La politica ha il suo vocabolario, ma per trasferire le parole in azione ha bisogno anche di altri occhi e orecchie per non diventare autoreferenziale. Vita ha dato spazio in questi anni all’Italia che si interroga di fronte alle sfide del nostro tempo, e che prova a trovare soluzioni cogliendo i mutamenti nei bisogni e nella società. Se ora abbiamo leggi che riguardano il terzo settore, lo spreco alimentare, il dopo di noi, l’agricoltura sociale, il servizio civile universale, il family act, non è frutto del caso bensì di un processo culturale che è maturato anche attraverso l’azione di chi sta fuori dal Parlamento e sa interpretare la realtà. Oggi più che mai dobbiamo guardare al futuro con questa consapevolezza, ed è per questo motivo che offro queste mie riflessioni al dibattito.

La scelta, è l’essenza stessa del fare politica. È onore e responsabilità grande, ma allo stesso tempo condanna alla lacerazione. Quando si decide di scegliere, e non galleggiare attendendo che siano gli eventi a determinare il corso delle cose, si può anche essere soli. Penso, da quarantenne prima ancora che da parlamentare, che questo Paese non abbia mai fatto i conti fino in fondo con l’onere della scelta altrimenti non saremmo un Paese vecchio. Non solo anagraficamente, ma anche nei costumi, in una classe dirigente immobile che chiede il cambiamento agli altri, purchè non si tocchino gli interessi consolidati. In questo modo i giovani hanno smesso di sognare, e soprattutto di credere che sia il merito a determinare i percorsi. Hanno ragione, è così. L’ascensore sociale è fermo da troppi anni, forse da sempre, per ignavia della politica e della classe dirigente tutta.

Nessuno si può sentire chiamato fuori rispetto a questo. L’università, il mondo dell’impresa, il sindacato, i media. Quando ci si siederà al tavolo del confronto per capire, e non solo per chiedere o conservare, forse ci risolleveremo sempre che non sia troppo tardi. Con l’aggravante che oggi gli effetti della pandemia rischiano di fare oscillare quell’ascensore prima immobile, come un elastico. Il ceto medio non solo si è impoverito, semplicemente non esiste più. Si può entrare nella soglia di povertà con grande facilità, basta una malattia, un divorzio, perdere il lavoro, avere un affitto troppo caro o non riuscire a pagare la rata del mutuo. La didattica a distanza, nonostante gli sforzi enormi degli insegnanti, non funziona allo stesso modo per chi ha una famiglia alle spalle e per chi invece necessità della comunità per essere incluso. Nemmeno il lavoro a distanza può essere la ricetta per tutti, è già un compromesso per chi ha un titolo di studio e una professione. Donne escluse ovviamente, in questo la pandemia ha avuto una continuità nel chiedere sempre il sacrificio, e non certo la libera scelta. La tragedia che ci ha colpito, con migliaia di morti e migliaia di persone rimaste a piangere il lutto e a guardare l’oggi con disperazione, ci da una ultima opportunità.

Continuare una lenta e inesorabile agonia, oppure scegliere di invertire la rotta? In modo radicale, e corale. Nessuno ha la verità in tasca, è troppo grande quello che ci circonda per decidere in solitudine. Aprire una crisi in piena pandemia era evitabile? Assolutamente sì. Se in questi mesi si fosse aperto un tavolo del confronto vero, con un nuovo patto di governo con attori che non recitano a soggetto. Stare in una coalizione implica sempre l’onestà del compromesso e della mediazione, ma non la spartizione delle idee. Tutti possono sbagliare di fronte a uno scenario dirompente come quello di una pandemia, non è certo questa la colpa dei DPCM a pioggia, delle contraddizioni e degli errori tra un testo e l’altro, dei ritardi nella erogazione delle misure, di intere categorie dimenticate dai decreti, della spregiudicatezza nella comunicazione volta al mero consenso, del Parlamento ridotto a certificatore delle scelte di tecnici e funzionari senza nome.

La burocrazia regna sovrana proprio quando la politica è debole. Il dramma non sta nel singolo errore, ma nella mancanza di visione. Il Recovery plan, può essere opportunità o sciagura. Le nostre scelte potranno finalmente liberare il Paese dalle sue tante catene e dare spazio al tesoro di intelligenza, bellezza e cuore su cui siamo seduti, che è imparaggiabile. Oppure legare al collo dei cittadini di oggi e delle generazioni future la pietra del più grande debito pubblico della nostra storia. Senza l’intervento di Italia Viva, oggi avremmo un piano senza anima e con tante mancanze. Dove sono ancora oggi le tabelle dettagliate con gli indicatori di risultato, non possiamo più permetterci di destinare soldi a pioggia senza valutarne ad ogni livello l’impatto. Si sono fatti quindi dei passi in avanti su singoli aspetti, ma ancora bisogna decidere alcuni nodi politici.

Sussidiarietà o statalismo. Assistenzialismo o dignità del lavoro. Giustizia o giustizialismo. È positivo che finalmente sia comparso sui radar del piano il terzo settore, ma non va bene che lo sia in modo ancillare asservito alle politiche pubbliche. Noi abbiamo bisogno di dare maggiori strumenti all’economia sociale, che è certo risposta ai bisogni e alla marginalità, ma anche settore produttivo e motore di crescita economica, occupazionale e sociale. Quindi è proprio un errore politico il recinto in cui si è limitato il non profit nel recovery plan. Proprio per le attività di interesse generale che svolge, e che potrebbe svolgere maggiormente, dovrebbe essere incluso anche nel capitolo della cultura, dell’agricoltura, della formazione e del diritto allo studio, delle politiche attive del lavoro, della coesione territoriale, della sanità, e soprattutto della innovazione e della digitalizzazione. Questo è solo uno dei tanti esempi del cambio di prospettiva e interconnessione tra i temi che richiede il Paese.

Penso che sul terreno del riformismo sia ancora possibile trovare una mediazione e un patto vero di legislatura. Si può essere “costruttori” di molte cose, di ponti o di mine antiuomo. Si può fare vivacchiare una maggioranza con i signori del “do ut des”, o decidere di maturare ciascuno nelle scelte politiche. Questa è la responsabilità a cui mi sento chiamata come parlamentare della Repubblica. Nella libertà del mio percorso politico e personale, e non certo nella sudditanza ad un capo. Ma è stucchevole pensare che una democrazia sana non abbia bisogno di leader. È semplice trovare consenso politico individuando il nemico. Matteo Renzi in questo è un grandissimo catalizzatore di energie. Utilizzarlo come alibi per le incapacità altrui potrà forse servire all’establishment ma non certo al popolo.

Perché le tante domande che necessitano di risposta, con o senza Italia Viva, rimangono sul tavolo. La crisi di governo si può superare in tanti modi, la crisi delle idee no.

*Parlamentare di Italia Viva e promotrice della legge 166/2016 sullo spreco alimentare

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