Salute mentale
Marco Cavallo, eroe di una fiaba sulla libertà
In libreria un volume per insegnare ai bimbi il rispetto delle differenze, delle persone e della loro dignità, attraverso la storia di uno dei simboli più famosi della rivoluzione basagliana
QUESTA E` LA STORIA
DI QUESTO CAVALLO,
IL CAVALLO CHE SI CHIAMA MARCO,
MARCO CAVALLO.
Tra i simboli di libertà più importanti in Italia c’è sicuramente Marco Cavallo, la grande statua blu che nel 1973 ha sfondato le porte del manicomio di Trieste ed è scesa in città, accompagnata da uno slogan che prometteva che avrebbe lottato per tutti gli esclusi. E così è stato in questi cinquant’anni, in cui ha girato per lo Stivale accompagnando moltissime rivendicazioni di diritti. Una storia esemplare, che oggi è diventata un libro per bambini, dal titolo Marco Cavallo. Il cavallo dei matti, edito da Eifis. A ideare questo progetto, nato a Ravenna, Giovanna Piaia, ex operatrice della salute mentale che si è formata anche nella Trieste di Basaglia e componente dell’associazione romagnola A testa alta, nata per promuovere i diritti delle persone con disturbi psichiatrici.
Perché avete deciso di raccontare questa storia?
Perché Marco Cavallo è un’icona. È un simbolo di libertà, concetto che non è sempre facile da spiegare ai bambini. I più piccoli, poi, si affezionano agli animali, che costituiscono delle metafore che sono comprensibili per loro. Attraverso il racconto del cavallo, quindi, si può insegnare il rispetto delle differenze, delle persone e della loro dignità. A volte anche raccontare chi è una persona con dei disturbi psichici è complesso e questa narrazione lo rende più facile. Però l’intento nasce anche da un’esigenza locale.
Cioè?
Nel 2016 abbiamo deciso di portare un nostro Marco Cavallo nel Giardino Basaglia, di fronte al Centro di salute mentale – Csm di Ravenna, una statua di acciaio all’interno della quale dei ragazzi, degli apprendisti saldatori stranieri, hanno messo i loro biglietti, come era già accaduto con la statua di cartapesta negli anni ‘70 a Trieste. In zona ci sono due scuole dell’infanzia, un asilo nido e le primarie. Attorno al cavallo facciamo girotondi coi bambini e leggiamo loro la favola. Faccio parte di un gruppo che ha in gestione il Giardino Basaglia e lo tiene curato come luogo di benessere, vicino a un centro di salute mentale. È diventato anche un ambiente in cui gli psichiatri fanno i loro colloqui, perché bisogna rompere lo schema dell’ambulatorio.
La nostra città ha una sua storia particolare, perché non aveva un manicomio negli anni Settanta, ma aveva una Giunta provinciale che amministrava la salute mentale e la psichiatria, come si chiamava semplicemente allora. Questa Giunta comprese che era superato il tempo di costruire degli ospedali psichiatrici, dopo l’esperienza triestina, così creò uno dei primi corsi di formazione professionale per infermieri, anticipando quella che fu la riforma. Un gruppo di persone, anche di Ravenna, andò a Trieste per apprendere il nuovo tipo di assistenza psichiatrica. Io ero fra quelle ed ero la più giovane, si sta parlando del 1973-1974. Proprio nel 1973 Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia fecero il loro laboratorio creativo all’interno dell’ospedale psichiatrico e lì nacque l’idea del cavallo, un animale che ogni giorno gli internati vedevano dalle loro finestre portare il materiale. Ci fu anche una lettera, per contrastare l’idea di farlo macellare quando non ce la facevo più a lavorare. Nel 1974-1975 creammo, inoltre, un asilo autogestito: pensavamo i bambini come rappresentanti dell’innocenza e del bisogno di rigettare l’idea della pericolosità sociale dei malati di mente. In quella fase di apertura dei reparti, infatti, era quest’ultimo il motivo per cui alcuni volevano confermare l’isolamento di chi aveva dei disturbi.
Da dove venivano questi bambini?
Erano i figli dei lavoratori e delle lavoratrici nel manicomio: ce n’erano tanti, perché i reparti avevano moltissimi degenti. Le pratiche femministe dell’epoca ci rendevano anche protagoniste dell’esigenza di collettivizzare i bisogni, insieme all’idea di neutralizzare la paura del malato di mente. Su questo noi abbiamo una continuità di memoria, io stessa sono testimone del fatto che – come diceva Basaglia – l’impossibile è diventato possibile.
Perché c’è bisogno, proprio ora, di raccontare ai bambini questa storia?
C’è sempre bisogno di spiegare cos’è la libertà e il rispetto delle persone. Io la chiamo proprio “pedagogia della libertà”, che va raccontata attraverso i simboli della storia, con episodi forti e portatori di contenuti. Oggi ci stiamo orientando anche al superamento della semplice uguaglianza dei diritti: bisogna insegnare a mettersi in ascolto, in un’ottica di non sopraffazione, per capire cosa porta il diverso da me, fin da quando i bambini sono molto piccoli.
Il libro è disponibile anche in libreria?
Si, è già disponibile e anche online.
Un elemento particolare del libro sono le illustrazioni, realizzate come degli origami.
L’illustratrice, Sahra Rossi, ha utilizzato questa tecnica per rappresentare il cavallo e gli altri personaggi della storia, che è molto efficace. Ci ha detto che si è impegnata molto anche per trovare l’azzurro giusto. Sembra una cosa banale ma non lo è, perché è un colore rilassante, il colore del mare, anch’esso simbolo di libertà. L’autrice, Renata Senni, è una persona di grande sensibilità che ha molta esperienza col lavoro coi bambini piccoli, che quindi ha costruito la storia sui loro schemi di attenzione. È anche una persona del nostro gruppo, madre di un ragazzo con delle difficoltà.
Da che età si può iniziare a leggere il libro?
Lo stiamo mettendo alla prova ora: mercoledì per esempio verrà letto ai bambini di una scuola dell’infanzia. Anche se non dovessero afferrare tutto il contenuto, i punti centrali di sicuro li comprendono bene. Insomma, è una storia adatta dai tre fino agli otto anni, perché porta con sé vari significati e interpretazioni, che possono essere affrontati nelle diverse età.
Le immagini nell’articolo sono state fornite dall’illustratrice
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