Mondo
Maradona: uomo, non calciatore o cocainomane
«La grandezza di Diego sta nel tenere insieme la perfezione calcistica con la totale imperfezione umana», sottolinea Mauro Berruto, «e non c'è alcuna dicotomia. Anzi nella contraddizione prende forza e diventa mito»
L'ondata di cordoglio e di manifestazioni di affetto nei confronti di Diego Armando Maradona all'annuncio della sua morte ha pochi eguali nella storia. Ad ogni latitudine, in maniera trasversale e universale, il pianeta lo sta celebrando. Ma come si spiega un così grande affetto? «Con la felicità che ha distribuito nel mondo», spiega Mauro Berruto, direttore della Scuola Holden ed ex allenatore della Nazionale italiana di pallavolo. «Pep Guardiola ha ricordato una frase scritta su uno striscione ai tempi del primo ricovero per cocaina che recitava: “non è importante cosa hai fatto nella tua vita Diego, ma quello che hai fatto nella mia”. Credo che riassuma bene il peso di Diego Armando Maradona e spieghi quello che sta succedendo in tutto il mondo».
Un mondo che però ha due cuori più pulsanti del resto. Buenos Aires e Napoli. «Napoli, quando lui ci è andato a giocare, era una città che usciva dal terremoto dell'Irpinia. I napoletani erano gente che si sentiva messa agli angoli del mondo e del Paese, esclusa e mortificata. Lui li ha fatti vincere», sottolinea l'ex coach.
Naturalmente c'è chi storce il naso. Ed elenca la cocaina, i problemi col fisco, i figli non riconosciuti e le relazioni burrascose con le donne. Senza contare chi sottolinea che “si parla pur sempre solo di un calciatore”. Per Berruto, «si può discutere se conti di più vincere uno scudetto o dipingere la Cappella Sistina. Potremmo discuterne per ore. Ma sarebbe un esercizio intellettuale che non tiene conto delle lacrime di tante persone, anche 50enni e 60enni, che lo piangono come se fosse stato un parente. Avrà un significato? Dovremmo chiederci semplicemente perché succede. Anche Caravaggio era un poco di buono, un assassino. Però davanti alle sue opere ci commuoviamo». In pochissimi casi secondo Berruto, «non ha alcun senso fare distinguo, l'uomo e il calciatore. E Maradona è certamente uno di questi. Non si può incasellarlo in categorie. Maradona è una categoria lui stesso. Diventa topos. Non è inscatolabile in un parametro di giudizio in cui decidiamo se è più importante la sua arte di essere calciatore o la sua debolezza di cocainomane. Di grandi calciatori ce ne sono stati altri. Ronaldo, Platini e Crujif sono stati geni assoluti. Ma quando moriranno non ci sarà nulla di simile. Diego è andato molto oltre una mera questione tecnica. Ha regalato gioia, orgoglio, riscatto e appartenenza a un pezzo di mondo che ne aveva bisogno».
Per Berruto in più, «El Diez dimostra una cosa che dico da sempre. Lo sport, come la musica, è un linguaggio universale. E il calcio è lo sport più universale di tutti. In cui, come dice Erri De Luca, spesso la periferia diventa centro, con i suoi sterrati, i suoi cortili e i suoi muri, dove sono nati tanti campioni. Maradona è stato sia il più grande interprete di questo linguaggio universale sia il più grande interprete di questo accentramento del margine. Quindi non si può dire che era solo un calciatore».
Diego insomma è una magia che non ha nulla di leggibile con il parametro del giudizio classico. «È insieme quel campione e quell'uomo. E non c'è alcuna contraddizione. Anzi nella contraddizione prende forza. Diventa mito», rimarca l'ex coach che aggiunge, «lo era anche fisicamente un assurdo. Non ha mai avuto la fisicità di Cristiano Ronaldo. Un fisico normale che faceva cose impossibili. Senza altezza, senza addominali e senza musucoli. Brera lo definì “sgorbio divino”. Un vero miracolo in cui la somma di fattori, anche discutibili, ti restituisce il senso di quello che sta succedendo».
Un'umanità, quella del campione argentino, che reclama anche rispetto. «Nessuno guardandosi allo specchio, sinceramente, può scagliare la prima pietra contro Maradona. La sua umanità vera lo rende uno di noi. Tutti lo amano? Chiediamoci perché, avendo tutti i crismi per essere invece il più odiato della storia da compagni e allenatori. Uno che arriva tardi, non si allena, non rispetta le regole. Eppure non esiste nessuno che abbia avuto a che fare con lui che ne parli male. Anzi».
E qual è la risposta? «La sua generosità. Una generosità che veniva dal non aver dimenticato le sue origini. Una generosità che lo portava a fare una cosa che oggi è impensabile: assumersi la responsabilità, anche sociale, del suo ruolo. Ha sempre preso posizione, su tutto. Su ciò che accadeva e su ciò che gli accadeva. Le immagini che lo ritraggono in quella partitella in provincia di Napoli, nel fango, a giocare per un bimbo cui aveva promesso quel match, contro la volontà di Ferlaino, lo riassume. Ne certifica l'epica. A nessuno interessa se Achille si droga. Come Freddy Mercury o Kurt Cobain, Caravaggio e Dante, non hanno categorie. Sono storia. E questo è anche Maradona: storia».
Oggi Diego Armando Maradona è un modo di dire, è una misura, è un metro. «È assoluto. È uno di quesi personaggi che è riuscito ad allineare tutte le caratteristiche che servono per diventare mitologia. I sei minuti di “Argentina – Inghilterra”, con il goal di mano seguito dal goal più bello della storia, sono la sintesi di tutto. Prima un gesto da furbo, la più grande cialtronata della storia dello sport. E dopo una dimostrazione di superirorità, forza, potenza ed eleganza senza pari. E infine la chicca: è stata la Mano de Dìos. Che altro serve? Maradona è Maradona. Tutto qui», conclude Berruto.
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