Cultura

Manifestare è ancora un diritto?

Le perplessità di un costituzionalista sulla direttiva Maroni del 26 gennaio 2009 sulle manifestazioni nei centri urbani e nelle aree sensibili

di Francesco Dente

È ammissibile un divieto generalizzato di manifestare in pubblico? Il Governo può, cioè, proibire in via preventiva cortei, adunanze o sit-in in determinati luoghi? È legittimo dal punto di vista costituzionale? Che spazio resta, in sostanza, per la libertà di riunione in luogo pubblico dopo la direttiva del 26 gennaio 2009 del Ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sulle manifestazioni nei centri urbani e nelle aree sensibili? Domande, queste, su cui si interrogano le associazioni, i sindacati ma anche i semplici cittadini e alle quali prova a dare una risposta Silvio Troilo, docente di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Bergamo, in un saggio pubblicato sul sito dell’associazione dei costituzionalisti italiani.

La direttiva, è il caso di ricordarlo, è stata emanata all’indomani delle preghiere islamiche del 3 gennaio scorso davanti al Duomo di Milano e alla basilica di San Petronio a Bologna. Il provvedimento, in sintesi, invita i Prefetti a stabilire regole – d’intesa con i Sindaci e sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica – per «sottrarre alcune aree alle manifestazioni». Quali aree? Zone, precisa l’atto di Maroni, «a forte caratterizzazione simbolica per motivi sociali, culturali o religiosi (ad esempio cattedrali, basiliche o altri importanti luoghi di culto)» oppure che siano caratterizzate – anche in condizioni normali – da un «notevole afflusso di persone» o «aree nelle quali siano collocati obiettivi critici».

Il riferimento, proviamo a indicare dei casi specifici, è alle vie dei borghi antichi o agli spazi antistanti gli ipermercati. Il prefetto di Bologna, ad esempio, con ordinanza del 18 febbraio ha vietato fino al 30 settembre 2009 cortei e manifestazioni (salvo le tradizionali cerimonie a carattere storico, religioso e commemorativo e i comizi elettorali) nei giorni di sabato pomeriggio e di domenica in alcune piazze e vie del centro storico felsineo. Un provvedimento analogo è allo studio a Milano. Il Sindaco Letizia Moratti e il Prefetto Gian Valerio Lombardi hanno individuato una prima “mappa” di spazi da vietare (tra questi Piazza Duomo, Corso Vittorio Emanuele, Piazza Mercanti, Piazzetta Reale, Piazza Sant’Ambrogio, Piazza Cordusio e Piazza Scala) che sarà sottoposta al vaglio del Comitato per l’ordine e la sicurezza e alle forze sociali.

È bene ricordare anche che cosa prevede la Costituzione sulla libertà di riunione. I cittadini, recita l’articolo 17, hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Devono dare, inoltre, preavviso delle riunioni in luogo pubblico alle autorità, che potranno vietarle soltanto per «comprovati» motivi di sicurezza o di incolumità pubblica. Ed è su questo aggettivo che si fondano, in sintesi, i dubbi sulla direttiva. Il fatto che i rischi per la sicurezza debbano essere «comprovati», spiega il professor Troilo, comporta che il divieto dell’autorità debba poggiare su una «esauriente motivazione» rispetto alla «situazione concreta». Devono esserci, insomma, rischi e pericoli specifici da valutare caso per caso. L’«invito» ai prefetti di Maroni, invece, dà la possibilità di vietare in via preventiva e generale le manifestazioni in determinati luoghi sensibili. Non è l’unico appunto mosso al provvedimento ministeriale.

Le principali perplessità riguardano la possibilità di stabilire un divieto di riunirsi in determinati luoghi «al fine di proteggere il valore simbolico di questi ultimi e non l’eventualità che, anche e proprio a causa di tale valore simbolico, possano motivatamente desumersi pericoli per la sicurezza, l’incolumità, la sanità». La protezione di un simbolo collettivo, argomenta Troilo, rappresenta sì un modo «per tutelare la comunità che in esso si rispecchia, ma vietare preventivamente ed in via generale ogni manifestazione pubblica in luoghi simbolici» significa che tutte le riunioni siano potenzialmente lesive di quei simboli. E, soprattutto, osserva il costituzionalista la direttiva appare irragionevole in quanto non considera l’esigenza, opposta, di «visibilità nell’opinione pubblica e di “impatto” sui terzi» perseguita dai manifestanti. Visibilità che il più delle volte è soddisfatta proprio dal valore simbolico del luogo prescelto per la riunione. Se, insomma, cortei e manifestazioni li spostiamo in periferia a che serve, vien da chiedersi, scendere in strada?

 

 

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